martedì 21 settembre 2021

USTICA, MOBY PRINCE, ROSSI, PANTANI – CALPESTATA LA MEMORIA DELLE VITTIME


Stragi di Stato. Sono trascorsi più di 40 e 30 anni dalle tragedie di Ustica e del Moby Prince e le vittime non hanno ancora avuto uno straccio di giustizia.

Uccise due volte, una memoria calpestata ad ogni hanno che passa, tra le solite litanie commemorative, intonate anche da quelle autorità istituzionali che hanno coperto e continuano a coprire i responsabili, in un vergognoso groviglio di collusioni & complicità.

 

USTICA, LA PISTA FRANCESE MAI BATTUTA

Parzialmente risarciti i familiari delle vittime di Ustica, fino ad oggi, e risarcita anche la compagnia ‘Itavia’, che comunque poco tempo dopo quel tragico 27 giugno 1980 era anche fallita. Magra consolazione per tutti, visto che non ci sono responsabili per l’eccidio: nessuno è stato mai condannato da una sentenza, nessuno ha scontato un giorno di galera, nessuno paga il fio per quella atrocità.

Generali, ammiragli, militari e politici liberi come fringuelli.

Eppure la ricostruzione storica di quella tragica notte è sotto gli occhi di tutti: almeno di chi vuol vedere. Mentre la giustizia, of course, è regolarmente cieca.

La tragica verità venne rivelata, poco prima di morire, dall’ex capo dello Stato Francesco Cossiga, che di stragi & misteri di Stato era ben a conoscenza. E nel 2007 raccontò che il missile assassino era partito da una portaerei francese, quella notte nelle acque del Tirreno.

Una ricostruzione che combaciava perfettamente con quella effettuata da una super documentata inchiesta prodotta dal transalpino ‘Canal Plus’.

E incredibilmente raccontata molti anni prima, nel ’91, da Franco Piro alla Voce. L’allora sottosegretario del Psi alla Difesa descrisse nei dettagli quello scenario di guerra nelle acque del Mediterraneo: era stata la portaerei ‘Clemenceau’ – disse – a lanciare il missile.

Sorge spontaneo un interrogativo alto come un grattacielo: come mai la magistratura, che pure ha puntato i riflettori sulla tragedia del tutto inutilmente per decenni, non ha mai voluto battere, neanche per un millimetro, la ‘pista francese’? Era così difficile ottenere, attraverso apposite rogatorie internazionali, tutti i tracciati radar in possesso dei transalpini in grado di documentare il posizionamento e i movimenti delle portaerei in quella tragica notte?

Giancarlo Dettori. Nel montaggio di apertura David Rossi, al centro l’incendio del Moby Prince e, sulla destra, la ricostruzione del DC9 di Uscita e un disegno che ritrae Marco Pantani

Giallo nel giallo, eccoci al caso Dettori. Stiamo parlando del maresciallo dell’aeronautica Alberto Dettori che quella notte era in servizio alla stazione radar di Poggio Ballone.

Sette anni dopo il suo corpo è stato trovato appeso ad un albero.

Dopo lunghissime, estenuanti ricerche, la famiglia cinque anni fa ha chiesto alla magistratura di Grosseto di riaprire il caso, subito archiviato in fretta e furia come il solito ‘suicidio’ da stress (un po’ postumo…).

Ebbene, quella richiesta è stata condannata, pochi mesi fa, allo stesso destino: archiviata, sepolta senza lo straccio di una motivazione plausibile.

E infatti la famiglia non si arrende. Alberto – gridano con forza – è una vittima collaterale di Ustica, perché quella notte ha visto quel che non doveva vedere. E, soprattutto, non doveva raccontare.

E guarda caso – come di recente la Voce ha documentato in due inchieste che potete leggere cliccando sui link in basso – pochi mesi prima di morire il maresciallo Dettori aveva ricevuto una stranissima visita, durata alcuni giorni, di un ‘collega’ francese, con ogni probabilità un uomo dei Servizi, conosciuto un anno prima nel corso di una missione a Nizza.

Incredibile ma vero, l’identità di quel militare francese non è stata mai appurata dai nostri inquirenti. Né hanno fatto il minimo sforzo per accertarla. Ai confini della realtà.

Chiara la volontà di coprire, insabbiare, depistare. Come è successo per 41 lunghissimi e drammatici anni da quel 27 giugno.

MOBY/ LA PISTA ‘BOMBA’ E LA MEMORIA DI ONORATO

E sono invece trascorsi 30 anni dalla tragedia del Moby Prince. E anche stavolta nessuna inchiesta, nessun processo ha mai portato ad un barlume di verità. Né tantomeno di giustizia.

Qualche scampolo dai risultati della prima commissione parlamentare d’inchiesta. E solo qualche mese fa, in primavera, ne è stata battezzata una seconda, stavolta presieduta dal Pd Andrea Romano. Riuscirà a portare qualcosa di nuovo, vista la totale latitanza della magistratura di casa nostra?

E sempre in primavera, ad aprile, è uscito un libro che indica una complessa pista e un movente mai venuto alla ribalta.

Si tratta di “Una strana nebbia- Le domande ancora aperte sul caso Moby Prince” (Mondadori), autore Federico Zatti, giornalista d’inchiesta e autore Rai.

Ipotizza, Zatti, che il Moby Prince sia stato sequestrato e dirottato contro la petroliera Agip: quindi l’esplosione, testimoniata – stando alla ricostruzione – da alcune tracce diSementex, un esplosivo militare, rilevate da uno dei periti incaricati per le indagini, Alessandro Massari.

Quale lo scenario politico-mafioso alle spalle? Zatti fa riferimento agli interessi della mafia per il calcestruzzo di casa Ferruzzi e per il petrolio controllato dall’ENI.

All’epoca infuriava il caso Enimont; mentre Giovanni Falcone Paolo Borsellinoindagavano sulle mani mafiose in svariate grosse imprese nazionali: in primis la Calcestruzzi guidata da Raul Gardini. E quando cade lo strategico tassello Gardini – secondo le ipotesi contenute nel libro – la mafia reagisce e dà un segnale allo Stato con la tragedia del Moby. Cui farà seguito, solo pochi giorni dopo, l’affondamento della petroliera ‘Haven’ davanti alle coste liguri che provocò cinque morti. E, l’anno dopo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Fantamafia e fantapolitica? Chissà.

Comunque sia, l’interrogativo resta sempre lo stesso: come mai la magistratura non batte mai un colpo? E anche su questa pista non fornisce neanche lo straccio di una risposta?

Vincenzo Onorato

Un mese ricco di sorprese, lo scorso aprile. Visto che anche l’armatore Vincenzo Onorato – noto alle cronache per le imprese di ‘Mascalzone Latino’ – improvvisamente, dopo tanti anni, ritrova la memoria.

Il 21 aprile, infatti, rilascia un’esplosiva – è proprio il caso di dirlo – intervista a ‘La Nuova Sardegna’. E decide di farlo – guarda caso – all’indomani di una sentenza emessa dalla sezione fallimentare del Tribunale di Milano, che ha dichiarato il crac della sua ‘Moby’, la quale aveva rilevato l’ex compagnia pubblica di navigazione ‘Tirrenia’.


Cosa rivela Onorato al quotidiano sardo? Che la collisione tra la petroliera e il suo traghetto era dovuta allo scoppio di “una bomba che si trovava nel locale del motore delle eliche di manovra, a prua”.

In realtà, mister Mascalzone Latino aveva già sostenuto la tesi della bomba nel corso del primo processo: nel corso dell’udienza del 22 gennaio 1996, infatti, parlò di una bomba, ma attribuì la responsabilità al proprietario di una società concorrente, Pascal Lotà, titolare della ‘Corsica Ferries’. Accuse che non hanno mai trovato alcun riscontro.

Nella fresca intervista, invece, Onorato non parla più del rivale corso, ma fa riferimento agli ‘scenari geopolitici’: “C’era la Guerra del Golfo – sostiene – la situazione in politica estera era estremamente difficile, c’erano navi sconosciute in rada”.


Scopre l’acqua calda, Onorato, visto che l’avvocato di parte civile (ossia dei familiari delle vittime), Carlo Palermo, da sempre ha descritto quello scenario: la prima invasione degli Stati Uniti in Iraq era finita neanche 24 ore prima, in rada c’era un gran movimento di mezzi, la vicina base americana di Camp Derby era in fortissima fibrillazione. Uno scenario, del resto, sempre rammentato dalla Voce nelle sue inchieste nel corso degli anni.

Visto che, almeno in teoria, alla procura di Livorno è ancora aperto un fascicolo giudiziario sulla tragedia del Moby Prince, è possibile sperare – siamo all’ennesimo appello – in un qualche miracolo?

O è sempre chieder troppo?

 

DAVID ROSSI / QUANDO LE PERIZIE FANNO A PUGNI

Da una commissione parlamentare d’inchiesta all’altra.

Ed eccoci al giallo per la morte di David Rossi, il responsabile delle comunicazioni del Monte dei Paschi di Siena volato giù dal quarto piano di palazzo Salimbeni ormai otto anni fa.

Davanti ai commissari, poche settimane fa, cioè a fine giugno, il procuratore capo di Siena, Salvatore Vitiello, ha ribadito una cantilena che dura ormai da tanti, troppi anni: sulla scena del delitto – ossia l’ufficio di David, al quarto piano, appunto – non sono mai stati trovati indizi di alcun tipo che possano far pensare ad una colluttazione. “Dai sopralluoghi – ha affermato – emerge la totale assenza di indizi violenti che si sarebbero trovati se Rossi avesse dovuto difendersi da una aggressione, se avesse ingaggiato una lotta, se fosse scappato via da qualcosa, trascinato con forza: non vi è nessun dato che lo rileva”.

E a proposito di alcune ferite trovate sul cadavere di David, quelle alle braccia e a un ginocchio, ineffabile commenta Vitiello: “Non abbiamo accertamenti scientifici che in qualche modo ci diano certezze, perché non sono stati fatti quando dovevano essere fatti”.

Si arrampica sugli specchi, il procuratore capo, e aggiunge che quelle ferite non vennero esaminate in sede di autopsia e quindi, dopo la riapertura delle indagini, la seconda perizia “ha cercato di spiegarle con le evidenze che erano emerse nel corso dei sopralluoghi”.

Ci avete capito un cavolo, in queste parole?

Vitiello prima assicura tutti che non c’è alcun indizio di violenza sulla scena del crimine; poi fa riferimento a ferite al braccio e al ginocchio per le quali a suo tempo non vennero fatti gli accertamenti dovuti; quindi parla di ‘evidenze nei sopralluoghi’.

Una domanda: hanno un senso compiuto frasi del genere? O non denotano, ancora una volta, una totale confusione investigativa, e, quindi, la non volontà di arrivare ad esiti giudiziari di effettivo valore probatorio?

Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi

Ma ci sono ulteriori dettagli sulla dinamica della caduta del corpo di David dal quarto piano. Sostiene Vitiello: “E’ caduto dal suo ufficio con la parte del corpo rivolta verso il muro, e questa caduta è collegata al fatto che lui con le braccia si è posizionato sulla finestra dove c’è la sbarra di ferro e si è lasciato andare, è caduto in modo verticale, in modo speculare alla parete”.

Mai viste a questo mondo, fino ad oggi, cadute in orizzontale.


Last but not least, “i fazzoletti sporchi di sangue – descrive Vitiello – che erano stati repertati, sono stati distrutti dopo il sequestro. Avrebbero potuto darci un importante contributo. E’ stato un atto incongruo, si poteva aspettare, ma in quel momento c’era stata la richiesta di archiviazione e tutti gli atti propendevano per il suicidio”.

Parole che fanno letteralmente cadere le braccia. E così succede ai familiari di David. Denuncia la moglie, Antonella Tognazzi: “Una recita imparata a memoria. Ancora oggi continuano a non dare motivazioni su quanto è accaduto, sulla base delle loro stesse perizie. Se una perizia dice che ci sono delle percosse sul corpo di David, come si fa a sostenere che nella stanza del suo ufficio non c’erano altre persone?”.

E annuncia ancora battaglia: “Non è finita. E’ piuttosto un continuo e ulteriore affondare il coltello nella piaga”.

 

PANTANI / VOLEVA FAR LUCE SUL CICLISMO SPORCO

A proposito di perizie che fanno a pugni, di scena del crimine alterata, di segni evidenti di percosse sul corpo della vittima, il caso di Marco Pantani, ‘suicidato’ il 14 febbraio 2004 nel residence ‘Le Rose’ di Rimini, presenta molte analogie con quello di David. Ed evidenzia una abnorme quantità di anomalie: “almeno un centinaio”, come ha sempre sostenuto il legale della famiglia Pantani, Antonio De Renzis.

Il giallo del super campione di ciclismo ha due copioni. Il primo concerne la tragica fine, il secondo riguarda quel maledetto Giro d’Italia del 1999: accumunati da un finale tombale, l’archiviazione.

Procediamo con ordine. L’archiviazione del primo filone (come atto finale, la sentenza della Cassazione pronunciata il 19 settembre 2017) fa letteralmente a cazzotti con la gigantesca mole di prove che hanno dimostrato come non si potesse trattare di suicidio.

Si parte con gli evidenti segni di percosse sul corpo di Marco, i segni di trascinamento del corpo stesso. Una stanza completamente devastata, segno di colluttazione e non di paranoia distruttiva, come hanno invece ritenuto gli inquirenti. La presenza di un giubbotto mai appartenuto a Marco, le tracce dell’involucro di un cono Algida mai comprato dal campione, la scomparsa di alcune palline bianche (di coca) dopo i sopralluoghi che hanno inquinato la scena del crimine. Le molte, troppe (una dozzina) ore trascorse dalla telefonata di Marco alla reception per chiedere aiuto e l’arrivo della polizia.


Nonostante la mole di anomalie, i pm di Forlì chiedono l’archiviazione. La Cassazione conferma.

Identico percorso per l’inchiesta sul taroccamento del Giro d’Italia 1999, al termine del quale Marco non doveva mai arrivare: perché così la camorra aveva deciso, avendo puntato un sacco di soldi sulla sconfitta del campione. Lo testimoniano, anni dopo, una serie di pentiti.

Marco Pantani

Come sono lampanti le prove che documentano le pressioni non proprio british sui medici per alterare il risultato delle analisi di Marco, in modo da ottenerne la squalifica. E mai chiarita la quantomeno atipica ‘morte’ del capo equipe, lo svedese Vim Jeremiasse, affondato nelle acque – pochi mesi dopo – di un lago ghiacciato in Austria.

Forlì, ancora una volta, archivia. L’avvocato De Renzis chiede la riapertura delle indagini alla Procura di Napoli, visto che sono determinanti le verbalizzazioni dei collaboratori di giustizia. Passano i mesi, il silenzio più totale. A quanto pare, nessun atto istruttorio compiuto.

Ad inizio anno, l’archiviazione, chiesta dal pm della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli Antonella Serio. A quanto pare, l’avvocato De Renzis non ha replicato.

Replica ancora a muso duro, invece, e lotta ancora per verità e giustizia la mamma di Marco, Tonina, che il mese scorso sbotta: “Marco è stato ucciso. Gli hanno tappato la bocca perché voleva raccontare i retroscena del ciclismo”.

Aggiunge dettagli, Tonina: “Il suo corpo era pieno di botte ed ematomi, come se fosse stato picchiato”.

“E’ impressionante la testimonianza del volontario del 118, il quale ha dichiarato che quando lui arrivò, per primo e insieme ad altre due persone, nella stanza di Marco e vi rimase 45 minuti, non c’era cocaina in giro e tutto era pulito. Inoltre, non vide nemmeno il sangue per terra e sul corpo di Marco. Io sono convinta che Marco non fu ucciso in quel residence, ma altrove. E poi portato lì”.

“Io so solo che mio figlio non mi vuole accanto a lui in cielo, perché devo combattere per lui su questa terra. Marco voleva la verità e io la cercherò per lui: affinché una volta individuati i responsabili io e il mondo li si possa guardare negli occhi”.

 

 

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