venerdì 31 gennaio 2020
Le privatizzazioni ci stanno riportando al Feudalesimo
L’America è il paese degli scandali. L’ultimo è l’uso da parte del multi-miliardario ebreo Mike Bloomberg di call center operati da carcerati per la pubblicità della sua campagna presidenziale.
A me sembra che lo scandalo sia l’attacco di Bloomberg alla Costituzione americana, non il suo utilizzo del lavoro carcerario. Bloomberg vuole abrogare il Secondo Emendamento e disarmare il popolo americano, proprio nel momento in cui il paese sta crollando spiritualmente, moralmente, economicamente e politicamente.
In un passato non lontano, avevo riferito sull’uso diffuso del lavoro penitenziario da parte delle principali aziende statunitensi e del Dipartimento della Difesa. Apple è una di queste aziende e stivali e abbigliamento per i militari vengono prodotti facendo lavorare i detenuti. Chiaramente, le autorità hanno legittimato le carceri private e l’appalto del lavoro penitenziario a basso costo ad entità private che lo utilizzano a scopo di lucro.
Bloomberg, secondo The Intercept, vale 54 miliardi di dollari ed Apple molto di più, almeno in base al mercato azionario. Se Apple può usare il lavoro dei carcerati, perché non può farlo Bloomberg?
Sono gli appaltatori che affittano i detenuti-lavorari a Bloomberg, ad Apple, al Dipartimento della Difesa, quelli che ci guadagnano. Incassano il salario minimo statale per i lavori penitenziari, mentre i carcerati sono retribuiti con pochi dollari al mese.
In passato, e forse ancora oggi in alcune regioni del paese, i detenuti lavoravano alla manutenzione delle strade pubbliche e non venivano pagati. Quindi, secondo logica, non c’è nulla di nuovo nell’utilizzo del lavoro carcerario. Questa argomentazione non tiene conto del fatto che, in precedenza, i detenuti lavoravano per la comunità, che, a sua volta, pagava le spese della loro incarcerazione. Oggi lavorano per le aziende private e generano profitti per le aziende private.
Quello che stiamo vivendo è il ritorno del Feudalesimo. Ecco come funziona il sistema penitenziario privato: lo stato arresta la gente e la incarcera nelle prigioni private. Lo stato poi usa i soldi dei contribuenti per pagare le aziende private che gestiscono queste prigioni. Questi centri di detenzione privati affittano il lavoro dei prigionieri ad altre società private che, a loro volta, rivendono i prodotti di questo lavoro a multinazionali e ad enti governativi sulla base del salario minimo sindacale.
Questo totale sfruttamento del lavoro è perfettamente legale. Ma non è diverso dai signori feudali che mettevano sotto servaggio gli uomini liberi e si appropriavano del loro lavoro. Il 96% circa dei carcerati non ha mai ricevuto un processo. Sono stati costretti ad autoincriminarsi, accettando un “patteggiamento,” per evitare una punizione più severa. Il restante 4%, se ha avuto un processo, non si è trattato di un processo equo, perché i processi equi non garantiscono le massime percentuali di condanne e le carriere dei funzionari di polizia, dei pubblici ministeri e dei giudici vengono prima della giustizia.
Oggi, una pena detentiva andrebbe considerata alla stregua di un servaggio, anche più pesante di quello dell’era feudale. All’inizio del periodo feudale esisteva ancora una certa reciprocità. Gli uomini liberi, che coltivavano i propri terreni, non avevano protezione contro le bande dei predoni, Vichinghi, Saraceni, Magiari, ed entravano al servizio di un signore in grado di dar loro la protezione di una fortezza e dei cavalieri con la corazza. La reciprocità era terminata con la fine delle incursioni, con gli ex-uomini liberi sotto servaggio e debitori verso il signore di un terzo di tutto il loro lavoro. Il servo della gleba di oggi deve dare alla prigione privata tutto il suo lavoro .
Le privatizzazioni sono il canto delle sirene dei libertari fautori del libero mercato. Hanno però bisogno di un’analisi più attenta di quella fatta dai libertari, visto che, nella maggior parte dei casi, le privatizzazioni avvantaggiano gli interessi privati a spese dei contribuenti. Nel caso delle carceri privatizzate, i contribuenti forniscono profitti alle società private che gestiscono le carceri. Queste aziende guadagnano ulteriormente affittando il lavoro dei prigionieri. Le grandi multinazionali beneficiano del basso costo del lavoro. Forse questo è un motivo per cui gli Stati Uniti hanno non solo la più alta percentuale di popolazione carceraria, ma anche il più alto numero di detenuti in assoluto. L’America ha più persone in carcere di quante ne abbia la Cina, un paese la cui popolazione è quattro volte maggiore.
Anche la privatizzazione del settore pubblico è ben avviata. Prendete in considerazione l’esercito americano. Molte attività precedentemente svolte dagli stessi militari sono ora affidate a società private. I cuochi dell’esercito e la corvè cucina sono spariti. Anche il settore rifornimenti è stato dato in appalto. Ho letto che persino la vigilanza armata nelle basi militari è fornita da compagnie private. Tutti questi esempi rappresentano l’uso del denaro pubblico per la creazione di profitti privati, tramite l’esternalizzazione di quelle che dovrebbero essere le funzioni di un governo. La privatizzazione dei servizi dell’esercito è una delle ragioni per cui le spese degli Stati Uniti nel settore della difesa sono così elevate.
In Florida, da circa tre anni, l’ispettorato della motorizzazione ha smesso di inviare le etichette per il rinnovo della validità delle targhe. Il governo dello stato lo ha affidato invece ad una società privata. Lo ricordo bene, perchè il mio rinnovo era arrivato di venerdì e il mio permesso era scaduto il lunedì precedente. Avevo chiesto alla motorizzazione perché il rinnovo fosse arrivato così in ritardo. La risposta era stata che i politici avevano esternalizzato il servizio rinnovi ai loro grandi amici e finanziatori.
Sempre in Florida, succedeva che, nel caso di una multa per un’infrazione al codice della strada, si poteva contestarla andando in tribunale o pagarla inviando direttamente un assegno. Oggi si può ancora andare in tribunale, o in un’autoscuola privata, ma non si può più spedire un assegno. Bisogna pagare con un assegno certificato da una banca o con un vaglia postale. Per evitare tempo e problemi, si può pagare con la carta di credito, ma anche quel servizio è stato privatizzato e la commissione per la comodità di utilizzare una carta di credito è abbastanza salata. In altre parole, i politici hanno creato un’altra società privata nella quale incanalare fondi statali, che poi vengono girati allo stato, non prima però che la società privata abbia riscosso la sua commissione sulla transazione elettronica.
Le privatizzazioni delle società pubbliche, spinte forse dagli oneri di segnalazione che la legge Sarbanes-Oxley impone alle società pubbliche, insieme alle fusioni, hanno ridotto il numero di società private di oltre la metà, tra il 1997 e il 2017. Vi sono ancora abbastanza aziende per un portafoglio azionario pensionistico diversificato. Tuttavia, le scelte si stanno restringendo. Se questo processo continua, le persone in cerca di investimenti favoriranno rapporti prezzo/utili più elevati anziché avere un portafoglio pensionistico vuoto.
In sostanza, le privatizzazioni delle funzioni pubbliche sono un modo per trasformare i pagamenti delle tasse in profitti per gruppi privati particolari. L’affermazione secondo cui le privatizzazioni riducono i costi è falsa. Aggiungendo ulteriori passaggi che generano profitti privati, le privatizzazioni aumentano i costi. Nella maggior parte dei casi, le privatizzazioni sono un modo per favorire chi è ben ammanigliato.
Le privatizzazioni, oltre a creare flussi di reddito per interessi privati, creano anche ricchezza privata trasferendo beni pubblici in mani private a prezzi sostanzialmente inferiori al valore di mercato. Questo è stato certamente il caso delle privatizzazioni delle società statali britanniche e francesi e del servizio postale britannico. Le privatizzazioni forzate imposte alla Grecia dall’UE hanno creato ricchezza per gli Europei del nord a spese della popolazione greca.
In una parola, le privatizzazioni sono un metodo di saccheggio. Dal momento le opportunità per un profitto onesto sono sempre di meno, si fanno strada le razzie. Aspettatevene sempre di più.
Aggiornamento: un lettore sottolinea che la popolazione carceraria degli Stati Uniti è superiore di 21.100 unità rispetto alle popolazioni carcerarie combinate di Cina e India, i due maggiori paesi in termini di popolazioni che, sommate tra loro, sono otto volte quella degli Stati Uniti.
Paul Craig Roberts
Fonte: www.paulcraigroberts.org
giovedì 30 gennaio 2020
Rete Voltaire: I principali titoli della settimana 29 gen 2020
mercoledì 29 gennaio 2020
Tesla, fine anno record in Borsa
Tesla è stata forse la più grande rivelazione tra i costruttori automobilistici dell’ultimo decennio. La società di Elon Musk - tra i ceo più anticonformisti in circolazione - sta battendo ogni record possibile e si prepara a chiudere il 2019 con una serie di risultati positivi.
Nel 2020 si aggiungono due nuovi modelli alla gamma: oltre a Model 3, S e X arriverà la crossover compatta Model Y. Bisognerà attendere invece l'avvio di produzione del 2021 per il Cybertruck: il pickup, secondo quanto dichiarato da Musk, ha già ricevuto preordini per oltre 200mila unità.
Il titolo in Borsa del costruttore ha raggiunto - nel momento in cui scriviamo - il valore massimo di oltre 419 dollari ad azione che ha permesso di raggiungere una capitalizzazione di più di 73 miliardi di dollari: una cifra enorme, che supera il valore del nuovo gruppo Fca-Psa (circa 50 miliardi), del doppio quello di Ford (37 miliardi di dollari) e del 37% quello di General Motors, fermandosi al terzo posto dopo Toyota (230 miliardi) e Volkswagen (98 miliardi).
Azioni a un +1.190% dal 2010
Nel terzo trimestre di quest’anno Tesla ha guadagnato circa 1,89 dollari ad azione andando contro le previsioni della maggior parte degli analisti che stimavano una perdita di circa 0,24 centesimi per ognuna. Sale di conseguenza anche la fiducia degli investitori: da giugno le vendite allo scoperto delle azioni Tesla sono diminuite di circa il 20%, attestandosi intorno al 9,2%, un valore ancora alto ma in costante calo.
Il titolo del costruttore californiano ha guadagnato il 22% quest'anno, superando la media del 14% raggiunta dalle 10 maggiori case automobilistiche al mondo. Il dato che impressiona di più è forse quello della crescita registrata dalla “prima volta” sul mercato nel 2010: da quel giorno il valore è salito del 1.190%.
lunedì 27 gennaio 2020
Albert Speer e lavori forzati
La vita e la carriera di Albert Speer, l'architetto del Fuhrer. Dalla costruzione di progetti monumentali e urbanistici fino alla condanna, alla fine della guerra, a 20 anni di reclusione. Ma Speer non fu solamente un semplice architetto, ricoprì la carica di Ministro degli armamenti, la punta di diamante del movimento scientifico del Reich.
Per approfondire:
Eric Laurent
La Verità Nascosta sul Petrolio
Un'inchiesta esplosiva sul "sangue del mondo"
Nuovi Mondi Media, Bologna, 2006.
ISBN 88-89091-37-1
con le confessioni di Albert Speer sul ruolo cruciale giocato dal petrolio e dalla produzione di carburanti sintetici nelle politiche di Hitler.
Benzina sintetica e terzo reich
Il terzo reich non aveva una indipendenza energetica, ma era in grado di produrre la benzina sintetica! È stato questo il reale motivo della persecuzione degli ebrei? Per usarli come manodopera a costo zero e senza tutele per la salute in modo da ridurre i costi di produzione della benzina?
Wall Street golpista: ancora al potere i killer di Kennedy
C'era un patto segreto tra Kennedy e Khruscev: mettere fine alla guerra fredda, disarmare i missili nucleari e collaborare persino nelle missioni spaziali. L'uccisione di Jfk mise fuori combattimento anche il leader sovietico. Da allora, per decenni, sia a Mosca che a Washington hanno comandato i falchi. Chi erano, negli Usa? Politici, ma in realtà emissari dell'élite finanziaria: Wall Street. Con alle spalle personaggi oscuri, già in affari con la Germania nazista, che dopo la guerra reclutarono nei loro servizi segreti la crema dell'apparato hitleriano di intelligence. Lo sostiene il giornalista investigativo tedesco Mathias Broeckers, autore di un nuovo dirompente libro-inchiesta sulla fine di John Fitzgerald Kennedy: nel 1963, dice Broeckers, è come se fosse finita la democrazia americana, congelata da un colpo di Stato. «In America, la democrazia effettiva tornerà solo quando verrà completamente "sdoganata" la verità sull'omicidio di Dallas». Un giallo per il quale l'allora braccio destro di Nixon, Roger Stone, oggi accusa nientemeno che l'ex presidente George Bush, uomo di Wall Street e dei petrolieri texani. Suo figlio, George Walker, gestirà poi l'altro grande "terremoto opaco" destinato a cambiare il mondo, l'11 Settembre.
La Cia, dichiara Broeckers in una lunga intervista concessa a Lars Schall e riportata su "Come Don Chisciotte", era in realtà uno strumento degli interessi finanziari fin dall'inizio. Missione dell'intelligence: operazioni segrete, di cui informare – non sempre, e non completamente – il presidente. «Dal momento che il "padre" della Cia Allen Dulles era un avvocato di Wall Street e suo fratello John Foster guidava la politica estera, le operazioni sotto copertura sono state un affare di famiglia gestito dai fratelli Dulles e i loro clienti di Wall Street. Questo è quello a cui Jfk cercò di porre termine e quello che lo ha condannato a morte». I clienti Dulles, aggiunge Broeckers, erano i banchieri e le grandi società, che erano in ottimi rapporti d'affari con la Germania nazista negli anni '30 e anche durante la guerra. «Alcuni di loro, come Prescott Bush – nonno di George W. – sono stati incriminati per "aver collaborato con il nemico".
E Allen Dulles, capo della Oss in Svizzera durante la guerra, ha organizzato un sacco di questi rapporti», compresa «l'integrazione segreta del capo delle spie naziste Reinhard Gehlen e di alcune centinaia di suoi ufficiali delle Ss nell'esercito degli Stati Uniti», per la costituzione dell'apparato Cia. Tutto questo, Dulles l'ha fatto «in privato, senza alcuna posizione ufficiale», tra il 1945 e il 1947, «dal suo ufficio al "Council on Foreign Relations"». E' funque «una perfetta ironia, o meglio un grande cinismo», il fatto che sia stato il pupazzo dei petrolieri del Texas, Lyndon Johnson, a incaricare Allen Dulles, nemico di Kennedy, per gestire la Commissione Warren, incaricata di fingere di indagare sull'attentato. «Dal momento che aveva funzionato così bene ci hanno riprovato, questa volta senza successo», quando hanno tentato di piazzare "Bloody Henry" Kissinger alla guida della commissione d'inchiesta per l'11 Settembre.
Il blackout democratico dell'America comincia dunque il 22 novembre 1963. Per un motivo molto preciso, secondo Broeckers: dopo lo stop dei test nucleari, Jfk aveva annunciato ai suoi confidenti che sarebbe andato a Mosca, dopo la rielezione, per negoziare un trattato di pace. In pubblico aveva già annunciato di voler fermare la corsa agli armamenti, al fine di porre fine alla guerra fredda. In un memorandum della National Action Security aveva parlato di una collaborazione con i russi nello spazio. Dopo lo scambio di lettere segrete con Khruscev, che ha concluso la crisi dei missili, era in buoni rapporti con il leader sovietico, che al Cremlino aveva chiesto allo stesso modo il disarmo. La morte di Jfk ha incoraggiato gli estremisti sovietici a sbarazzarsi di lui. «Con Kennedy vivo, Khruscev sarebbe rimasto al potere e la guerra fredda avrebbe potuto essere conclusa negli anni '60. Ecco perché la morte di Jfk ha ancora importanza: è il crimine più importante della seconda metà del 20° secolo, è ancora irrisolto e ha segnato in un certo modo la fine della Repubblica americana. Da allora il complesso finanziario-militare-industriale ha comandato, e nessun presidente dopo Jfk ha avuto le palle per sfidarlo».
Il giornalista tedesco, che ha alle spalle decine di saggi e lavora attualmente per il quotidiano "Taz" e la webzine "Telepolis", insiste sulla ragione capitale – interamente geopolitica – dell'omicidio Kennedy: «Jfk aveva fatto passi definitivi per porre fine alla guerra fredda. Aveva negato il coinvolgimento dell'esercito nella Baia dei Porci, ereditato dal suo predecessore; aveva risolto la crisi dei missili a Cuba attraverso il contatto diretto e segreto con Khruscev; aveva assicurato uno stop ai test nucleari coi sovietici e aveva ordinato il ritiro dal Vietnam. Tutto questo contro la volontà dei militari, della Cia, e anche di molti membri della sua amministrazione». Era un uomo pieno di nemici: i "comunisti incalliti" in Russia, Cina e Cuba, ma anche gli israeliani, cui Jfk aveva dismesso le armi nucleari. Ce l'aveva con lui pure la Federal Reserve, a causa della sua idea di un nuovo dollaro "del governo", con copertura in argento, sottratto al controllo dei banchieri. E poi la mafia, a causa della sua rinuncia a invadere Cuba: le "famiglie" speravano di «riavere indietro i loro casinò e bordelli». Altri nemici, i sudisti razzisti, che non perdonavano a Kennedy l'impegno per i diritti civili. «Ma nessuno di loro – avverte Broeckers – aveva i mezzi e le opportunità per l'omicidio e, soprattutto, i mezzi per coprire il tutto negli anni». Chi aveva quei mezzi? «Solo la Cia e l'esercito per la realizzazione, e l'Fbi e l'amministrazione Johnson per la copertura».
Ormai la verità sta venendo a galla, dopo decenni di reticenze e depistaggi. Le prime crepe negli anni '80, quando si è scoperto che erano falsi i tesserini dell'Fbi esibiti ai poliziotti sulla Dealey Plaza di Dallas. Responsabile della stampa di quei documenti era la "divisione tecnica" della Cia, presieduta da Sidney Gottlieb, famoso per il progetto "Mk ultra", attività di manipolazione mentale con ipnosi, sieri della verità, Lsd e messaggi subliminali. Tesserini falsi, su cui non indagarono mai né l'Fbi né la Commissione Warren. «Questo fatto da solo esclude che la mafia, i russi, i cubani, i cinesi o altri assassini autonomi abbiano fatto questo di proprio conto: e anche se questi gruppi fossero stati in grado di ottenere tesserini autentici dei servizi segreti, il fatto che questa contraffazione non sia stata investigata porta immediatamente l'Fbi di Hoover in cima agli indagati». Oggi, il team tecnico dell'Arrb (Assassination Records Review Board) ha stabilito al di là di ogni dubbio che l'autopsia e le radiografie di Kennedy, custodite negli archivi nazionali, sono state manipolate: «Nessun mafioso, banchiere o cubano sarebbe stato in grado di farlo».
Quei falsi clamorosi, continua Broeckers, sono stati fabbricati all'ospedale militare di Bethseda, dove l'autopsia di Jfk è stata supervisionata da Curtis LeMay, il capo di stato maggiore dell'esercito americano, che era «uno dei nemici più accaniti di Jfk». LeMay era in vacanza a pescare, e quando ha avuto notizia della sparatoria di Dallas «è tornato a Washington subito – non per un'emergenza militare, ma per sedersi nella sala autopsie e fumarsi un sigaro», al cospetto del cadavere del suo nemico. Eppure, «le false immagini e radiografie, presentate da allora ad ogni ricercatore, sono una delle ragioni principali per cui la "teoria del proiettile magico" poteva reggere per così tanto tempo: solo i militari, da cui sono state fatte quelle foto e radiografie, erano in grado di organizzare quei falsi e metterli in archivio». Sempre grazie all'Arrb, ormai ci sono diverse prove che sia stato manipolato, il giorno dopo l'assassinio, persino il famoso filmato realizzato quel giorno a Dallas da un testimone, il sarto Abraham Zapruder, munito di cinepresa. «Tuttavia, anche l'attuale "originale" sembra mostrare chiaramente un colpo da davanti, dalla collinetta erbosa – dato che il falso non era perfetto». E il fatto che alla Commissione Warren sia stata mostrata solo una brutta copia in bianco e nero «indica che gli autori erano consapevoli di ciò». Altra prova della copertura: per anni, nessuno ha saputo che il film di Zapruder era stato poi acquistato dal gruppo Time/Life, esattamente come quello di un altro videomaker amatoriale, Orville Nix, il cui film è stato acquisito dalla United Press e fatto scomparire.
Il risultato della Commissione Warren è stato chiaro fin dall'inizio, perché la commissione non ha fatto nessuna indagine diretta e dipendeva interamente dai dati forniti dall'Fbi. «Hoover sapeva delle numerose tracce lasciate dalla Cia; nel caso, sapeva che avevano portato prove false di viaggi fatti da Oswald in Messico per accusarlo di essere comunista – e ha concluso, solo due giorni dopo la sparatoria, che a Dallas c'era solo il tiratore solitario Lee Harvey Oswald». Hoover odiava i Kennedy, in particolare il suo capo Robert Kennedy, ed era il responsabile principale dell'operazione congegnata per incastrare Oswald e coprire il caso. La Cia, aggiunge Broeckers, ha fabbricato le prove false per quella che Peter Dale Scott ("La politica sommersa e la morte di Jfk") chiama "la fase 1 della copertura", cioè il collegamento "comunista", quello che ha permesso a Lyndon Johnson – gridando al pericolo di una guerra nucleare – di premere sui membri della commissione per far loro prendere posizione e assicurarsi così il successo della "fase 2", ovvero il risultato della loro pseudo-inchiesta: lo "squilibrato" Oswald, un pazzo solitario.
«Tra tutti i crimini – osserva Broeckers – l'omicidio è quello con il maggior numero di casi risolti dai tribunali: non ci sarebbe stato alcun bisogno di tutte le coperture degli ultimi 50 anni se Lee Harvey Oswald fosse stato un pazzo solitario». Perché era necessario che Jack Ruby lo uccidesse? «Si conoscevano bene. E dato che Oswald era una risorsa di Fbi e Cia, doveva essere messo a tacere prima che potesse parlare». Ma attenzione: non c'era solo il piano per uccidere Kennedy a Dallas. Ce n'era almeno un altro, in programma per una visita di Kennedy a Chicago. «Era un complotto con evidenti parallelismi con quello di Dallas – un ex marine preparato come capro espiatorio, che ottenne un posto di lavoro in un edificio alto sul percorso che il corteo doveva percorrere un po' di settimane prima, e che si era addestrato con gli esuli cubani, come Oswald». Andò a monte. «Per caso, i tiratori scelti furono avvistati da un albergatore e la visita di Chicago fu annullata». Perché Jfk morì proprio il 22 novembre 1963? Il giornalista tedesco non ha dubbi: «Aveva fatto un cambiamento radicale, da presidente, verso una politica di riconciliazione e di pace. Aveva fatto arrabbiare i nemici, in campo militare e nella Cia. E quando ha annunciato la fine della guerra fredda, nel suo discorso del 10 giugno 1963, si è condannato a morte».
Per il giornalista, questa motivazione è decisamente più forte di qualsiasi altra, compresa quella – pure rilevante – del coinvolgimento sistematico della mafia in parecchie operazioni targate Cia. «Dal "Progetto Luciano" nel 1943 – l'aiuto del boss della mafia imprigionato Lucky Luciano, all'invasione della Sicilia – la mafia è diventata lo strumento preferito della Cia per le operazioni segrete e per generare fondi neri dal business della droga: dovunque arrivava l'esercito Usa o la Cia stava facendo "cambiamenti di regime" – accusa Broecker – i soldi della droga erano essenziali per il finanziamento delle operazioni, dal Sud-Est asiatico negli anni '60 fino ad oggi in Afghanistan». E dal momento che l'agenzia governativa di Langley «non può vendere la "roba" direttamente, ha bisogno dei mafiosi per farlo, e ottenere la loro quota per finanziare i signori della guerra», chiamati a seconda dei casi "combattenti per la libertà" o "terroristi". Illuminante il caso di aziende come la Permindex, che è stata «una società di copertura per la Cia, l'Mi6 e il Mossad», perfettamente utile come «linea per il riciclaggio di denaro e il traffico d'armi». Continua Broecker: «Hanno lavorato insieme alla banca Meyer Lansky in Svizzera, che era gestita da Tibor Rosenbaum, che ha gestito la maggior parte del traffico d'armi del Mossad». Jim Garrison, il procuratore di New Orleans incaricato di indagare sull'omicidio Kennedy, stava andando nella giusta direzione? «Certo, perché Clay Shaw, proprietario del "New Orleans International Trade Mart" e uno dei direttori di Permindex, stava chiaramente lavorando con la Cia. Ecco perché il caso di Garrison è stato sabotato da Washington fin dall'inizio».
Determinante la disponibilità omicida dell'intelligence "deviata", e facilmente spiegabile: «Gli uomini dei servizi segreti erano per lo più sudisti, che rifiutavano profondamente la politica dei diritti civili di Jfk. Hanno gestito la sicurezza a Dallas in modo molto blando». Abraham Bolden, il primo afro-americano che Jfk aveva portato ai servizi segreti nel 1961, dice che quando ha provato a contattare la Commissione Warren per parlare dell'atteggiamento razzista dei suoi colleghi è stato incriminato da falsi testimoni corrotti e incarcerato. Oltre alla falsificazione dell'autospia e delle radiografie all'ospedale di Bethseda, i militari furono decisivi anche nell'alterare la testimonianza dei medici. Pressioni, depistaggi, manipolazioni. «I primi interrogatori di Marina Oswald non erano della polizia di Dallas, ma di ufficiali dell'intelligence militare, che hanno anche fornito un traduttore di dubbia serietà per le sue testimonianze e hanno contribuito in primo luogo a incastrare Oswald».
Da dove sono venuti i fondi per il colpo di Stato? Mathias Broeckers fa i nomi di due miliardari, i petrolieri texani Haroldson L. Hunt e Clint Murchison: «Sono i più probabili finanziatori, anche se non ci sono prove». Si sa che paragono di tasca loro l'annuncio sul giornale Dallas il giorno prima della visita, che indicava Kennedy come comunista e traditore. «Odiavano profondamente Jfk e avevano Lyndon Johnson in tasca, la loro assicurazione che tutto sarebbe stato coperto in modo corretto». Un nuovo e ben documentato libro di Richard Belzer ("Hit List") elenca 1.400 persone con una connessione con l'omicidio e, nei primi tre anni dopo l'assassinio, 33 di loro sono morti per cause non naturali. «La probabilità che questo accada per caso è di 1 su 137 miliardi». Ergo: l'unica spiegazione ragionevole è proprio quella del colpo di Stato, denunciato dallo stesso Gore Vidal quando dice che negli Usa ormai comanda «un sistema con un unico partito e due destre», sorretto dai grandi media che «fanno il lavaggio del cervello alla popolazione 24 ore al giorno e promuovono le guerre per il dominio imperiale globale», incluse le «operazioni segrete in tutto il mondo per garantire questo predominio». E questo, conclude Broeckers, andrà avanti «finché la verità sull'operazione segreta, il colpo di Stato contro la presidenza di Jfk, verrà tenuta nascosta».
(Il libro di Mathias Broeckers, "Jfk: Staatsstreich in Amerika", colpo di Stato in America, è stato appena pubblicato – per ora solo in tedesco – dalla Westend Verlag di Francoforte, agosto 2013. Autore di svariati saggi e libri-inchiesta, Broeckers si è occupato di misteri irrisolti, potere e traffico di droga, terrorismo e politica sommersa).
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venerdì 24 gennaio 2020
Il killer: John Kennedy l’ho ucciso io. E nessuno lo interroga
«Da domani, quei figli di puttana dei Kennedy non mi umilieranno più». Lo confidò l’allora vicepresidente Lyndon Johnson alla sua amante texana, Madeleine Brown, la sera del 21 novembre 1963. Poche ore dopo, John Fitzegerald Kennedy sarebbe stato ucciso. Da chi? Non da Lee Harvey Oswald, ma dal vero assassino: James Files, reo confesso. Un uomo della mafia di Chicago, ingaggiata dalla Cia per l’operazione. La notizia è la seguente: dopo 28 anni di omertoso silenzio, in seguito al depistaggio ufficiale (che utilizzò il falso colpevole, Oswald), il vero assassino ha accettato di parlare. Merito di un agente dell’Fbi, Zack Shelton, impegnato a indagare su un banale traffico di auto rubate, ormai negli anni ‘80. Shelton scopre che a guidarle da Chicago al Texas è proprio Files, e si informa sul suo conto. Una voce lo avverte: quel ladro d’auto, collegato alle “famiglie” di Chicago, è implicato nell’omicidio di Dallas. Shelton informa il suo capo, Dick Stilling, che però lo ferma: lascia perdere, gli dice. Allora, l’agente Shelton passa il fascicolo a un investigatore privato di Dallas, Joe West, deciso a scovare la verità su Kennedy. Dopo un lungo assedio, West ottiene di parlare con Files, nel frattempo finito in galera. Lo avverte: è stato l’Fbi a fare il tuo nome. Al che, Files vuota il sacco. Finirà per ammettere: a far esplodere la testa di Kennedy sono stato io. Ma nessun magistrato andrà mai a interrogare il killer, tuttora detenuto in Illinois.
Sconcertante? E’ quello che pensa Massimo Mazzucco, e non da oggi: il suo documentario “L’uomo che uccise Kennedy” è stato trasmesso già nel 2009 da “Matrix”, su Canale 5. Non contiene solo la confessione di Files, piena di riscontri ormai verificati, ma tante altre clamorose ammissioni, che confermano in modo incontrovertibile il complotto. Kennedy “doveva” morire, perché dava fastidio a tutto l’establishment: aveva appena licenziato il potente capo della Cia, Allen Dulles, per il fallimento dell’operazione anticastrista alla Baia dei Porci, a Cuba. Un altro super-potente, Edgar Hoover, che fino ad allora aveva ignorato la mafia («che lo ricattava, per la sua omosessualità»), era stato costretto a fare improvvisamente la guerra alle cosche “amiche”, dopo la nomina di Bob Kennedy al ministero della giustizia. «Ce l’aveva con Kennedy anche il complesso militare-industriale, perché il presidente voleva ritirarsi dal Vietnam prima che si arrivasse all’escalation di una guerra vera e propria», dice Mazzucco. A Jfk l’avevano giurata anche i grandi banchieri, perché voleva mettersi a stampare moneta di Stato, «e questo sicuramente non giova alla salute».
Il piano, riassume Mazzucco, fu quindi organizzato dalla Cia, «che utilizzava la mafia come braccio armato». Si sarebbe attivata «una zona grigia, tra le due organizzazioni, nella quale i problemi comuni, forse anche oggi, vengono risolti in modo comune, senza fare troppo rumore». Come è emersa, la verità? In modo semplicissimo: per quel piccolo traffico di auto. «Durante le indagini – racconta l’agente Shelton – entrai in contatto con una persona che conosceva Files, e mi disse che una volta, a Dallas, passarono insieme per Dealey Plaza. Files divenne molto strano e disse qualcosa come: “Se gli americani sapessero quello che è successo davvero, nessuno sarebbe in grado di accettarlo”». Da qui l’interesse dell’investigatore, stoppato dall’Fbi ma deciso a passare il caso al detective Joe West. All’inizio, James Files era diffidente: non voleva parlargli. Cambiò idea quando West gli fece capire che la soffiata che lo tirava in ballo proveniva dall’Fbi. «Allora gli raccontai tutto – dice il killer – tranne il mio ruolo. Joe West morì senza sapere che ero stato io, a far saltare il cervello a Kennedy».
Come lo sappiamo, noi? Grazie a un documentario prodotto negli Usa, dopo la strana morte dello stesso West. Già, perché l’investigatore perse la vita in seguito a un’operazione chirurgica. Files sostiene che lo abbiano ucciso: «Ho sentito dire che gli hanno dato le medicine sbagliate». Faceva paura, West? Certo: grazie alle rivelazioni di Files, aveva presentato un fascicolo alla magistratura per far riaprire le indagini. Dalla sua, aveva un indizio decisivo: «Se fate riesumare il corpo di Kennedy – gli aveva detto Files – troverete tracce di mercurio: era imbottita di mercurio la pallottola esplosiva che uccise Kennedy, e le tracce di mercurio non spariscono». Com’è noto, non c’è mai stata nessuna riesumazione: morto West, la sua denuncia è finita in soffitta. Lo stesso killer si era quasi affezionato, a quel detective: «Accetto di collaborare al documentario – disse al produttore, di Hollywood – solo a patto che i proventi finiscano alla vedova di West». Il produttore sperava che uno scoop come quello (la confessione dell’assassino di Kennedy) facesse il giro delle televisioni. Invece, i grandi network l’hanno completamente ignorato. E nessun inquirente, tuttora, ha mai trovato opportuno andare a consultare Files, sempre recluso nel suo penitenziario.
A indignare Mazzucco, che ha appena realizzato un video sul tema – è anche la clamorosa reticenza di Massimo Polidoro, del Cicap, autore di un filmato incredibilmente “nebbiogeno” girato nel 2018. Polidoro, una creatura di Piero Angela (che lo fece “formare” dall’illusionista James Randi sulle tecniche di debunking), ignora deliberatamente la confessione di Files: come se non fosse mai avvenuta. Non solo: Polidoro – che accredita ancora la versione ufficiale (Lee Oswald unico colpevole) – ignora fatti gravissimi, accertati dal 1963. Per esempio: dice che a Dallas, sotto la finestra della stanza al sesto piano del deposito di libri dove in teoria era appostato Oswald, accanto a tre bossoli sarebbe stato subito rinvenuto un fucile Mannlicher-Carcano di fabbricazione italiana. Falso: i primissimi notiziari della Cnn parlano di un fucile tedesco Mauser 7,65, per giunta scovato solo mezz’ora dopo. Lo conferma il vice-sceriffo di Dallas, Roger Dean Craig, presente nel corso della perquisizione: «Ero lì, e il fucile trovato – ben nascosto, sotto una pila di libri – era un Mauser». Nei giorni successivi, i media cambiarono l’identità del fucile: il Mauser non avrebbe potuto sparare i proiettili del Carcano, che sono incompatibili.
Polidoro, poi, sorvola sul primo dei proiettili esplosi quel giorno a Dallas: un colpo a vuoto, finito lontanissimo dal corteo presidenziale, e comunque fuori dalla traiettoria dell’ipotetica finestra di Oswald. «Il proiettile ferì un passante», dice Polidoro. Non è esatto, lo corregge Mazzucco: a ferire il passante fu una scheggia di cemento, schizzata via dopo l’impatto con la pallottola. Attenzione: sul marciapiede trovarono tracce di piombo e antimonio, ma non di rame (materiale con cui sono “camiciati” i proiettili del Carcano). Secondo Polidoro quel colpo sarebbe stato sparato proprio dal Carcano di Oswald: avrebbe colpito un albero e sarebbe stato deviato lontanissimo. Improbabile, secondo gli esperti: in quel caso, o si spezza il ramo o la pallottola resta conficcata nel tronco. Ma non ha comunque l’energia inerziale per cambiare direzione, percorrere centinaia di metri e arrivare a bersaglio con la stessa forza d’urto. Mazzucco ha consultato Francesco Zanardi, istruttore di tiro della polizia italiana: «Anche se ammettiamo che ci sia stata una deviazione della traiettoria, sicuramente è impossibile che un proiettile perda la camiciatura o una parte di essa», dice Zanardi. «Ecco la prova del complotto: quel proiettile era “scamiciato”, quindi non può essere partito dal fucile di Oswald», conclude Mazzucco. «Si trattava di un proiettile diverso, partito da un fucile diverso».
E questo non è che uno dei dettagli – clamorosi – su cui Polidoro non fa chiarezza. Pur di non parlare di James Files (l’assassino reo confesso), il debunker di Piero Angela prende per buona la vecchia “storia del melone”, per spiegare lo strano movimento della testa di Kennedy, una volta colpito. E cioè: se si spara a un melone, ricadrà verso lo sparatore, perché a spingerlo all’indietro sarà la polpa, “esplosa” in avanti. «Già, ma la faccia di Kennedy non è mai esplosa». Nessun mistero, chiarisce lo stesso Files: Kennedy è stato colpito da dietro e, un istante dopo, alla tempia. Racconta: alla nuca lo colpì il suo “collega” Chuck Nicoletti, appostato nell’edificio accanto a quello di Oswald (da cui il primo movimento in avanti della testa di Kennedy). A farlo rimbalzare quasi simultaneamente indietro, invece, fu il colpo laterale (tra occhio e orecchio) esploso da Files, appostato sulla collinetta erbosa accanto al corteo presidenziale.
Ricapitolando: Oswald, quel giorno, non sparò mai. Infatti, gli trovarono tracce di polvere da sparo sulle mani, ma non sul volto (nonostante la camera di scoppio di un fucile sia a pochi centimetri dalla guancia del tiratore). A Kennedy spararono altre due persone: Nicoletti, dal sesto piano del Dal-Tex Building, e Files dalla collinetta. Oswald? Era coinvolto nel piano, ma non come killer. Fece da assistente, a Files, prima del momento decisivo. «Dovevo regolare il cannocchiale della mia arma – racconta il killer – e Lee mi portò a sparare in un luogo sicuro, una discarica. Io sparavo, lui raccoglieva i bossoli». Ecco spiegata la presenza di polvere da sparo solo sulle mani. Poi il seguito è una barzelletta. Colpito Kennedy, secondo la versione ufficiale, Oswald avrebbe lasciato la palazzina dei libri e sarebbe andato a casa. In una Dallas gremita di poliziotti alle prese con la caccia all’uomo, avrebbe avuto l’idea geniale di tornare per strada, per giunta armato di pistola. Una volta fermato per un controllo da un poliziotto, l’agente Tippit, anziché mostrargli i documenti gli avrebbe sparato, freddandolo: ma senza accorgersi del fatto che gli era caduto il portafogli, poi trovato a terra (insieme ai documenti) accanto alla vittima.
A Oswald, capro espiatorio predestinato, in realtà fu ordinato di infilarsi in un cinema senza pagare, allarmando così la cassiera. «E in quelle ore, naturalmente, la polizia di Dallas non aveva di meglio da fare che precipitarsi in un cinema, sulle tracce di uno spettatore che era entrato senza biglietto», sottolinea Mazzucco. Barzelletta tragica, quella su Oswald, a cui Polidoro mostra di credere, visto che poi il finto assassino sarà ucciso da Jack Ruby: un uomo che, si saprà in seguito, lavorava dal 1947 per Richard Nixon, come suo informatore. Fine di Oswald, e fine della verità: per la Commissione Warren, ma anche per Polidoro (nonostante mezzo secolo di smentite e rivelazioni). Attenzione: Nixon non ha che fare con il caso solo per via di Ruby. Il giorno precedente l’omicidio Kennedy era presente a Dallas insieme a Lyndon Johnson, allora vicepresidente. «Ai Kennedy, Johnson era stato imposto come vicepresidente da Hoover, il quale sapeva benissimo che i Kennedy non lo avrebbero confermato alla guida dell’Fbi. E lo stesso Johnson detestava i Kennedy, che lo trattavano come una cameriera». Si ritrovarono tutti proprio a Dallas, la sera prima del delitto, nella villa del petroliere Clint Murchinson: c’erano Johnson, Nixon e Hoover, e per la Cia era presente Howard Hunt, il braccio destro di Allen Dulles (il capo silurato da Kennedy). E oltre a Johnson e Nixon c’era un altro futuro presidente: George Bush, di lì a poco direttore della Cia.
Al party c’era anche Madeleine Brown, che da Johnson avrebbe avuto un figlio: è lei a confermare che, all’arrivo di Hoover, i potenti si appartarono per un’ora. Dal summit, Johnson uscì visibilmente sollevato: «Mi prese per un braccio – ricorda la donna – e mi spiegò che, dall’indomani, i Kennedy non sarebbero più stati un problema, per lui». In pubblico, più volte, li aveva definiti «i rampolli della mafia irlandese». Ma quella della Brown non è l’unica testimonianza. A rivelare dettagli imbarazzanti sono ormai moltissimi protagonisti. Uno è lo stesso Howard Hunt, poi implicato nel Watergate: in punto di morte (gennaio 2007), l’ex dirigente Cia consegnò al figlio una confessione registrata in cui elencò i principali autori del complotto. Raccontò tutto anche Chauncey Holt, tipografo ed esperto d’armi al servizio del mafioso Mayer Lansky, anch’esso legato alla Cia. Holt è uno dei tre famosi “vagabondi” arrestati a Dallas dopo l’omicidio e poi rilasciati. Rivelò, nella sua confessione (morirà nel 1997), di aver preparato per la Cia i falsi documenti di identità destinati a Oswald. Secondo Holt, Oswald è stato tradito dalla stessa agenzia di intelligence, per cui lavorava: «Ho sempre avuto simpatia per Oswald», dice. «E non mi sembra giusto che lui, o i suoi figli, debbano portarsi addosso per sempre quelle stigmate».
Anni dopo, la vedova – Marina Oswald – si espresse in modo esplicito: «Vorrei che le persone che ne hanno il potere, e che accusano Lee, dimostrassero finalmente la sua colpevolezza. Mettano sul tavolo le prove». Nel documentario che gli americani non hanno potuto vedere, e che Mazzucco utilizza largamente per la sua ricostruzione del 2009 trasmessa da Canale 5, abbondano invece le prove a carico dei personaggi che ruotarono attorno a Oswald. Indizi convergenti, conferme. Anello di congiunzione: il vero killer, James Files, ora detenuto a Stateville (30 anni, per tentato omicidio di due poliziotti). Nel 1963, Files è autista e guardia del corpo di Chuck Nicoletti, killer mafioso della “famiglia” di Chicago comandata da Tony Accardo e Sam Giancana. Ha solo 21 anni ma è stato per oltre un anno nelle forze speciali Usa in Laos. Racconta: nel novembre ‘63 lo mandano a Dallas a ispezionare la Dealey Plaza, dove Chuck Nicoletti e il “collega” Johnny Rosselli sono stati incaricati di uccidere Kennedy. «Dovevo controllare tutto, passaggi di tram e treni», dice Files. «Loro conoscevano già gli orari del corteo presidenziale».
La mattina del 22, Nicoletti chiede a Files di fargli da tiratore di riserva. Al che, Files sceglie il luogo dove appostarsi: la sommità della collinetta erbosa, dietro una staccionata, con alle spalle i binari. «Sembrerò un ferroviere, nessuno farà caso a me». Accompagnato da Rosselli, Nicoletti avrebbe sparato dal Dal-Tex Building, palazzo rosso di sei piani, accanto al famoso Book Depository di Oswald (un palazzo giallo, sempre di sei piani). Il compito di Files: sparare solo all’ultimo momento, e solo se Nicoletti (dal Dal-Tex Building) non fosse riuscito a colpire Kennedy alla testa. Arma: un fucile a canna corta Remington Xp-100, soprannominato Fireball. Piccolo, munito di cannocchiale, comodo da riporre in una valigetta. Munizioni: proiettili calibro 22 modificati al mercurio, preparati da uno specialista di Chicago. «La punta limata e forata col trapano, il mercurio inserito col contagocce». Pallottole poi «richiuse con della cera, in modo che esplodessero all’impatto». Nicoletti non è convinto: «Perché usi il Fireball, che ha un solo colpo?». Risponde Files: «Be’, se devo aspettare che tu abbia finito, quando toccherà a me avrò solo il tempo di sparare giusto un colpo. Non potrei mai spararne un secondo».
All’arrivo del corteo presidenziale da Elm Street, racconta Files, hanno cominciato a esplodere colpi da dietro. «Ho pensato che fosse Nicoletti, perché c’era lui nell’edificio, e sapevo che Johnny Rosselli era con lui. Sentivo partire i colpi, ma nonostante il presidente venisse colpito io lo consideravo mancato, perché sapevo che dovevamo colpirlo alla testa». Files ha Kennedy nel mirino del cannocchiale: «Capivo che era stato colpito nel corpo, ma non sapevo in che punto. Ho visto il corpo piegarsi, poi piegarsi ancora. Ho sentito un altro colpo andato a vuoto. Non dovevamo colpire nessuno eccetto Kennedy». Invece, il governatore John Connally era stato appena ferito, per errore, da Nicoletti: Files lo intuì, pur inquadrando quasi solo la testa di Kennedy. «Quando sono arrivato al limite del mio campo di tiro ho puntato sul lato sinistro della testa, perché se avessi aspettato ancora Jacqueline Kennedy sarebbe entrata nella traiettoria, e mi avevano detto che a lei non doveva succedere niente», racconta il tiratore. «In quel momento ho pensato: questa è l’ultima possibilità che ho di sparare». Poi spiega: «Io e Nicoletti abbiamo sparato quasi nello stesso istante: e la testa di Kennedy è andata prima avanti e poi indietro. Il proiettile di Nicoletti deve aver colpito un millesimo di secondo prima del mio, e questo ha spinto la testa di Kennedy in avanti. Così ho mancato l’occhio sinistro e ho colpito la tempia sinistra».
Perché il mondo continua a non sapere quasi niente, della confessione dell’assassino di Kennedy? Perché il caso non è mai stato riaperto, risponde Mazzucco: il detective Joe West non è sopravvissuto a lungo, dopo aver presentato la denuncia sulla base della confessione di Files. Che peraltro non era stato facile ottenere: si erano scritti, e Files negava di essere implicato nel caso. Un giorno, West riesce a telefonargli. «Ha tre minuti per convincermi del motivo per cui dovrei parlare con lei», lo avverte il killer. West inizia a parlare, ma Files lo ferma subito: «Stop, stai toccando molti argomenti delicati, e la telefonata è registrata». Di qui la concessione del colloquio in carcere. Il primo giorno, i due non toccano l’argomento. L’indomani però Files vuota il sacco. Spiega: «Joe mi sembrava una persona per bene, mi piaceva, aveva un certo magnetismo. Così, il secondo giorno ci siamo messi a parlare seriamente». Files ricostruisce la dinamica dell’omicidio, ma non rivela a West di essere stato lui a sparare dalla collinetta. «Joe voleva sapere dove mi trovassi io. Gli dissi: metto una X sul foglio, che indica me. “I was about here”. Ma questa X non è al posto giusto. Al momento giusto, gli dissi, metterò la X dove deve stare».
Il punto di svolta? L’indizio di Files per la riesumazione del corpo di Kennedy: «Spiegai a West che il presidente era stato colpito alla testa con un proiettile speciale, al mercurio. E gli dissi che poteva usare questa informazione in tribunale, per far riesumare il corpo, perché avrebbero trovato le tracce del mercurio – che non scompaiono: rimangono per sempre». Presentata la causa, viene accettata dal tribunale. Ma West cesserà di vivere poco dopo, per i postumi di quell’intervento clinico andato storto. «Morì senza sapere che io fossi uno dei due tiratori presenti quel giorno a Dealey Plaza», si rammarica West. «Non seppe mai che io ero sulla collinetta erbosa». Morto West, parte l’operazione-documentario: è agli autori del film che, finalmente, Files confessa il suo ruolo. Lo fa in memoria di West, a sua volta attivato dall’agente Zack Shelton. Ma il documentario viene letteralmente insabbiato. «Se diffuso dai grandi network – ribadisce Mazzucco – un documentario come quello avrebbe imposto la riapertura del processo. E questo rischiava di portare alla luce le vere responsabilità dell’attentato e le trame oscure alle sue spalle». Così, si preferisce liquidare James Files come una specie di mitomane. Uno strano mitomane: muto per 28 anni. Se fosse stato in cerca di fama, avrebbe almeno accettato di parlare col regista Oliver Stone, autore del film “Jfk”, che lo andò a trovare per ben tre volte in carcere. Niente da fare: «Quell’uomo non mi piaceva», dice Files.
In realtà, gli elementi a conferma della versione del “mitomane” sono schiaccianti. Tanto per cominciare: l’altro killer, Nicoletti, era a Dallas dalla mattina del 22 novembre insieme al suo compare Rosselli. Li aveva portati in auto – da Chicago – lo stesso Chauncey Holt, il falsario che lavorava per la Cia, e che poi a Dealey Plaza avrebbe assunto il ruolo di “vagabondo”. Holt aveva con sé anche i falsi distintivi del servizio segreto, poi utilizzati dai due misteriosi personaggi che respinsero i curiosi dalla collinetta erbosa, permettendo a Files di allontanarsi con calma. Ricorda il killer: «Un poliziotto gettò a terra la sua moto e corse verso la collinetta con la pistola in pugno, ma due uomini in giacca e cravatta gli andarono incontro, gli mostrarono il distintivo e lo fermarono». Files spiega anche come il gangster Rosselli arrivò a Dallas: «Rosselli mi disse: sono stato fortunato, mi ha dato un passaggio un aereo della Cia». Lo conferma il pilota di quel volo, Tosh Plumlee: «La nostra squadra è partita da West Palm Beach, da un posto chiamato Lantana. Eravamo diretti a Tampa. Rosselli e altre due persone salirono a bordo, a Tampa. Andammo a New Orleans, dove due persone scesero e altre tre rimasero a bordo. Rosselli rimase a bordo. Andammo a Houston e, la mattina dopo (c’era brutto tempo) partimmo per Dallas. Charles Nicoletti non era su quel volo, ma era a Dallas».
Il filmato di Mazzucco si sofferma su dettagli feroci: Jackie Kennedy consegnò un pezzo di cervello (raccolto dal cofano della limousine) a uno dei medici che tentarono di salvare John al pronto soccorso. «Attraverso il cannocchiale del Fireball – racconta Files – ho visto la testa di Kennedy esplodere e la parte posteriore staccarsi: ho visto cervello, tessuti e capelli andare in tutte le direzioni, come uno spruzzo». L’agente Billy Hargis, il poliziotto che affiancava la coda della limousine, conferma: «Fui attraversato dalla “nuvola” del cervello esploso di Kennedy: sangue, ossa, roba. Più tardi un collega mi indicò un pezzetto di osso che mi era rimasto appiccicato in faccia, sopra il labbro superiore». William Harper, allora studente, trovò un frammento di osso cranico lungo 6-7 centimetri nel prato, nel punto in cui Kennedy era stato colpito da Files. Moltissimi testimoni oculari confermarono di aver visto una grande apertura nella parte posteriore del cranio di Kennedy. Poi però quello scempio scomparve miracolosamente, nella foto ufficiale dell’autopsia. Files se la rigira tra le mani: «Non è la foto giusta», dice, perché la parte posteriore del cranio di Kennedy, semplicemente, non esisteva più.
E Oswald? «Lo conoscevo da prima», ammette sempre Files. «Fu David Attlee Phillips a presentarmelo. Nella Cia, Phillips era il “controllore” di Oswald, nonché il mio». Fu Phillips a spedire Oswald da Files appena dopo il suo arrivo a Dallas. «Apro la porta e mi trovo Oswald davanti. Mi stupii che lui sapesse che mi trovavo lì. Gli ho chiesto: e tu che ci fai, qui? Lui: mi hanno detto di passare di qui e stare un po’ con te, nel caso avessi bisogno di aiuto. Mi disse: qualcuno vuole che ti mostri la zona». E’ Oswald a scattargli una celebre foto (a torso nudo) nella stanza del suo motel di Dallas. Oswald accompagna Files a testare il Fireball e il cannocchiale. «Lee raccoglieva i bossoli e li teneva in mano: non volevo lasciarne in giro». Files non ha mai cercato la notorietà: tutt’altro. «Per 28 anni e mezzo – dice – nessuno sapeva che io esistessi. Tutto era tranquillo, nessuno aveva mai parlato. Poi un giorno si presenta Joe West. E da quel che ho capito, è stato l’Fbi a mettere in giro il mio nome. Quindi – aggiunge – bisognerebbe chiedere a loro perché hanno messo in giro il mio nome, perché mi hanno messo in vetrina: non l’ho certo voluto io».
Rimorsi, per aver ucciso Kennedy? «Per molti anni non ne ho provati», ammette Files. «Però, più il tempo passa… il rimorso è forse per come ne ha risentito il paese, per le conseguenze». Riflette: «Forse Kennedy aveva fatto qualcosa di buono, per il paese». Si domanda: «Era onesto?». Aggiunge: «Be’, un po’ di rimorso ce l’ho: magari non per lui, ma per la famiglia, i figli. Ma al tempo in cui agimmo, pensavamo che stessimo facendo la cosa giusta». Uomo della mafia italoamericana abituato a collaborare con settori della Cia, James Files ha l’aria di un detenuto modello. Parla con pacatezza: le sue parole sono precise. Una ricostruzione lucida. Non traspaiono turbolenze d’animo: del resto, a vent’anni Files era già un cecchino dei corpi speciali, una macchina da guerra. Un ragazzo progettato per uccidere. Gli unici sentimenti che lascia emergere sono per il detective West: un brav’uomo, messo a tacere da chi non voleva la verità.
Se fosse venuta fuori – dice Marina Oswald – il paese non l’avrebbe sopportata. Non avrebbe retto allo choc: il presidente assassinato dai suoi principali collaboratori, ormai in rotta con lui e decisi a usare killer della mafia protetti dagli 007. Un caso più che imbarazzante, e ultra-discusso: 500 libri, dozzine di film e documentari. Oggi, dice Mazzucco, la verità è finalmente affiorata: l’omicidio Kennedy resta “un mistero” solo per il pubblico di Massimo Polidoro e dei patetici debunker del Cicap. Come si fa, oggi, a sostenere ancora l’unica tesi palesemente insostenibile, cioè quella di Lee Oswald unico colpevole, assassino solitario? Non solo: dal penitenziario di Stateville, James Files – l’assassino dichiarato – aspetta ancora che qualche inquirente si decida a bussare alla sua cella. L’America ha altro a cui pensare. Solo pochi mesi fa, i media hanno letteralmente silenziato la clamorosa denuncia dei pompieri di New York, sulla “demolizione controllata” delle Torri Gemelle l’11 Settembre. Nel frattempo, John Fitzgerald Kennedy “riposa” nel cimitero di Arlington, in Virginia, da ormai 54 anni. Secondo il suo killer reo confesso, il cranio del presidente ucciso a Dallas presenterebbe ancora tracce evidenti di mercurio. Ma nessuno si prende la briga di andare a controllare.
(Massimo Mazzucco, reporter e video-maker, gestisce il blog “Luogo Comune” e, insieme a Giulietto Chiesa, la web-Tv “Contro Tv“, con programmi gratuitamente in onda ogni lunedì, mercoledì e venerdì sera. Ha firmato documentari esplosivi: “Inganno globale”, sull’11 Settembre, fu trasmesso da Mentana in prima serata su Canale 5, a “Matrix”, nel 2006. Mazzucco si è occupato di marijuana, cure alternative per il cancro, missioni spaziali Apollo: l’ultimo lavoro, “American Moon“, dimostra che le immagini sull’”allunaggio” del 1969 furono girate in studio. Fotografo di moda e già assistente di Oliviero Toscani, Mazzucco è regista e sceneggiatore, impegnato anche a Hollywood per 15 anni. Ha diretto film con Walter Chiari, Luca Barbareschi, Florinda Bolkan, Sam Jenkins, Michael York e Scott Caan. Blogger attivo nel monitoraggio costante dei casi più controversi dell’attualità, dal 5G ai danni da vaccino, anima ogni sabato mattina la trasmissione YouTube “Mazzucco Live“, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Non so con quale coraggio – dice oggi Mazzucco – Polidoro riesca a negare l’evidenza». Nel suo filmato del 2018, riguardo alle versioni alternative a quella ufficiale (falsa), il debunker afferma, testualmente: «Il fatto è che non sono mai emersi elementi concreti, prove o documenti a loro carico». Protesta Mazzucco: «Non sono mai emersi elementi concreti, prove o documenti? Certo, se facciamo eccezione per tutte le persone che hanno già confessato di aver partecipato all’omicidio Kennedy. Lo sanno anche i paracarri, ormai, che gli assassini di Kennedy hanno un nome e un cognome, e soprattutto hanno dei mandanti molto precisi, cioè il connubio criminale tra mafia e Cia, con la partecipazione silente di Johnson e la complicità di Hoover, capo dell’Fbi»).
«Da domani, quei figli di puttana dei Kennedy non mi umilieranno più». Lo confidò l’allora vicepresidente Lyndon Johnson alla sua amante texana, Madeleine Brown, la sera del 21 novembre 1963. Poche ore dopo, John Fitzegerald Kennedy sarebbe stato ucciso. Da chi? Non da Lee Harvey Oswald, ma dal vero assassino: James Files, reo confesso. Un uomo della mafia di Chicago, reclutata dalla Cia. La notizia è la seguente: dopo 28 anni di omertoso silenzio, in seguito al depistaggio ufficiale (che utilizzò il falso colpevole, Oswald), il vero assassino ha accettato di parlare. Merito di un agente dell’Fbi, Zack Shelton, impegnato a indagare su un banale traffico di auto rubate, ormai negli anni ‘80. Shelton scopre che a guidarle da Chicago al Texas è proprio Files, e si informa sul suo conto. Una voce lo avverte: quel ladro d’auto, collegato alle “famiglie” di Chicago, è implicato nell’omicidio di Dallas. Shelton informa il suo capo, Dick Stilling, che però lo ferma: lascia perdere, gli dice. Allora, l’agente Shelton passa il fascicolo a un investigatore privato di Dallas, Joe West, deciso a scovare la verità su Kennedy. Dopo un lungo assedio, West ottiene di parlare con Files, nel frattempo finito in galera. Lo avverte: è stato l’Fbi a fare il tuo nome. Al che, Files vuota il sacco. Finirà per ammettere: a far esplodere la testa di Kennedy sono stato io. Ma nessun magistrato andrà a interrogare il killer, tuttora detenuto in Illinois.
Sconcertante? E’ quello che pensa Massimo Mazzucco, e non da oggi: il suo documentario “L’uomo che uccise Kennedy” è stato trasmesso già nel 2009 da “Matrix”, su Canale 5. Non contiene solo la confessione di Files, piena di riscontri ormai verificati, ma tante altre clamorose ammissioni, che confermano in modo incontrovertibile il complotto. Kennedy “doveva” morire, perché dava fastidio a tutto l’establishment: aveva appena licenziato il potente capo della Cia, Allen Dulles, per il fallimento dell’operazione anticastrista alla Baia dei Porci, a Cuba. Un altro potente, Edgar Hoover, che fino ad allora aveva ignorato la mafia («che lo ricattava, per la sua omosessualità»), era stato costretto a fare improvvisamente la guerra alle cosche “amiche”, dopo la nomina di Bob Kennedy al ministero della giustizia. «Ce l’aveva con Kennedy anche il complesso militare-industriale, perché il presidente voleva rititarsi dal Vietnam prima che si arrivasse all’escalation di una guerra vera e propria», dice Mazzucco. A Jfk l’avevano giurata anche i grandi banchieri, perché voleva mettersi a stampare moneta di Stato, «e questo sicuramente non giova alla salute».
L’operazione, riassume Mazzucco, fu quindi organizzata dalla Cia, «che utilizzava la mafia come braccio armato». Si sarebbe attivata «una zona grigia, tra le due organizzazioni, nella quale i problemi comuni, forse anche oggi, vengono risolti in modo comune, senza fare troppo rumore». Come è emersa, la verità? In modo semplicissimo: per quel piccolo traffico di auto. «Durante le indagini – racconta l’agente Shelton – entrai in contatto con una persona che conosceva Files, e mi disse che una volta, a Dallas, passarono insieme per Dealey Plaza. Files divenne molto strano e disse qualcosa come: “Se gli americani sapessero quello che è successo davvero, nessuno sarebbe in grado di accettarlo”». Da qui l’interesse dell’investigatore, stoppato dall’Fbi ma deciso a passare il caso al detective Joe West. All’inizio, James Files era diffidente: non voleva parlargli. Cambiò idea quando West gli fece capire che la soffiata che lo tirava in ballo proveniva dall’Fbi. «Allora gli raccontai tutto – dice il killer – tranne il mio ruolo. Joe West morì senza sapere che ero stato io, a far saltare il cervello a Kennedy».
Come lo sappiamo, noi? Grazie a un documentario prodotto negli Usa, dopo la strana morte dello stesso West. Già, perché l’investigatore perse la vita in seguito a un’operazione chirurgica. File sostiene che lo abbiano ucciso: «Ho sentito dire che gli hanno dato le medicine sbagliate». Faceva paura, West? Certo: grazie alla confessione di Files, aveva presentato un fascicolo alla magistratura per far riaprire le indagini. Dalla sua, aveva due elementi formidabili: la confessione del killer, e un indizio decisivo. «Se fate riesumare il corpo di Kennedy – gli aveva detto Files – troverete tracce di mercurio: era imbottita di mercurio la pallottola esplosiva che gli sparai, e le tracce di mercurio non spariscono». Com’è noto, non c’è mai stata nessuna riesumazione: morto West, la sua denuncia è finita in soffitta. Lo stesso killer si era quasi affezionato, a quel detective: «Accetto di collaborare al documentario – disse al produttore, di Hollywood – solo a patto che i proventi finiscano alla vedova di West». Il produttore sperava che uno scoop come quello (la confessione dell’assassino di Kennedy) facesse il giro delle televisioni. Invece, i grandi network l’hanno completamente ignorato. E nessun inquirente, tuttora, ha mai trovato opportuno andare a consultare Files, sempre recluso nel suo penitenziario.
A indignare Mazzucco, che ha appena realizzato un video sul tema – è anche la clamorosa reticenza di Massimo Polidoro, del Cicap, autore di un filmato incredibilmente “nebbiogeno” girato nel 2018. Polidoro, una creatura di Piero Angela (che lo fece “formare” dall’illusionista James Randi sulle tecniche di debunking) ignora deliberamente la confessione di Files: come se non fosse mai avvenuta. Non solo: Polidoro – che accredita ancora la versione ufficiale (Lee Oswald unico colpevole) – ignora fatti gravissimi, accertati dal 1963. Per esempio: dice che a Dallas, nella stanza al sesto piano del deposito di libri dove in teoria era appostato Oswald, accanto a tre bossoli sarebbe stato subito rinvenuto un fucile Mannlicher-Carcano di fabbricazione italiana. Falso: i primissimi notiziari della Cnn parlano di un fucile tedesco Mauser 7,65, per giunta scovato solo mezz’ora dopo. Lo conferma il vice-sceriffo di Dallas, Roger Dean Craig, presente nel corso della perquisizione: «Ero lì, e il fucile trovato – ben nascosto, sotto una pila di libri – era un Mauser». Nei giorni successivi, i media cambiarono l’identità del fucile: il Mauser non avrebbe potuto sparare i proiettili del Carcano, che sono incompatibili.
Polidoro, poi, sorvola sul primo dei proiettili esplosi quel giorno a Dallas: un colpo a vuoto, finito lontanissimo dal corteo presidenziale, e comunque fuori dalla traiettoria dell’ipotetica finestra di Oswald. «Il proiettile ferì un passante», dice Polidoro. Non è esatto, lo smentisce Mazzucco: a ferire il passante fu una scheggia di cemento, schizzata via dopo l’impatto con la pallottola. Attenzione: sul marciapiede trovarono tracce di piombo e antimonio, ma non di rame (materiale con cui sono “camiciati” i proiettili del Carcano). Secondo Polidoro, quel colpo sarebbe stato sparato dal Carcano di Oswald: avrebbe colpito un albero e sarebbe stato deviato lontanissimo. Improbabile, secondo gli esperti: in quel caso, o si spezza il ramo o la pallottola resta conficcata nel tronco. Ma non ha comunque la forza di cambiare direzione, percorrere centinaia di metri e arrivare a bersaglio con la stessa forza d’urto. Mazzucco ha consultato Francesco Zanardi, istruttore di tiro della polizia italiana: «Anche se ammettiamo che ci sia stata una deviazione della traiettoria, sicuramente è impossibile che un proiettile perda la camiciatura o una parte di essa», dice Zanardi. «Ecco la prova del complotto: quel proiettile era “scamiciato”, quindi non può essere partito dal fucile di Oswald», conclude Mazzucco. «Si trattava di un proiettile diverso, partito da un fucile diverso».
Ma non è che uno dei dettagli – clamorosi – su cui Polidoro non fa chiarezza. Pur di non parlare di James Files (l’assassino reo confesso), il debunker di Piero Angela prende per buona la vecchia “storia del melone”, per spiegare lo strano movimento della testa di Kennedy, una volta colpito. E cioè: se si spara a un melone, ricadrà verso lo sparatore, perché a spingerlo all’indietro sarà la polpa, “esplosa” in avanti. «Già, ma la faccia di Kennedy non è mai esplosa». Nessun mistero, chiarisce lo stesso Files: Kennedy è stato colpito da dietro e, un istante dopo, alla tempia. Racconta: alla nuca lo colpì il suo “collega” Chuck Nicoletti, appostato nell’edificio accanto a quello di Oswald (da cui il primo movimento in avanti della testa di Kennedy). A farlo rimbalzare quasi simultaneamente indietro, invece, fu il colpo laterale esploso da Files, appostato sulla collinetta erbosa accanto al corteo presidenziale.
Ricapitolando: Oswald, quel giorno, non sparò mai. Infatti, gli trovarono tracce di polvere da sparo sulle mani, ma non sul volto (nonostante la camera di scoppio di un fucile sia a pochi centimetri dalle guance dello sparatore). A Kennedy spararono altre due persone: Nicoletti, dal sesto piano del Dal-Tex Building, e Files dalla collinetta. Oswald? Era coinvolto nel piano, ma non come killer. Fece da assistente, a Files, prima del momento decisivo. «Dovevo regolare il cannocchiale della mia arma – racconta il killer – e Lee mi portò a sparare in un luogo sicuro, una discarica. Io sparavo, lui raccoglieva i bossoli». Ecco spiegata la presenza di polvere da sparo solo sulle mani. Poi il seguito è una barzelletta. Colpito Kennedy, secondo la versione ufficiale, Oswald avrebbe lasciato la palazzina dei libri e sarebbe andato a casa. In una Dallas gremita di poliziotti alle prese con la caccia all’uomo, avrebbe avuto l’idea geniale di tornare per strada, per giunta armato di pistola. Una volta fermato per un controllo da un poliziotto, l’agente Tippit, anziché mostrargli i documenti gli avrebbe sparato, freddandolo: ma senza accorgersi del fatto che gli era caduto il portafogli, poi trovato a terra (coi documenti) accanto alla vittima.
A Oswald, capro espiatorio predestinato, in realtà fu ordinato di infilarsi in un cinema senza pagare, allarmando così la cassiera. «E in quelle ore, naturalmente, la polizia di Dallas non aveva di meglio da fare che precipitarsi in un cinema, sulle tracce di uno spettatore che era entrato senza biglietto», sottolinea Mazzucco. Barzelletta tragica, quella su Oswald, a cui Polidoro mostra di credere, visto che poi il finto assassino sarà ucciso da Jack Ruby: un uomo che, si saprà in seguito, lavorava dal 1947 per Richard Nixon, come suo informatore. Fine di Oswald, e fine della verità: per la Commissione Warren, ma anche per Polidoro (nonostante mezzo secolo di smentite e rivelazioni). Attenzione: Nixon non ha che fare con il caso solo per via di Ruby. Il giorno precedente l’omicidio Kennedy era presente a Dallas insieme a Lyndon Johnson, allora vicepresidente. «Ai Kennedy, Johnson era stato imposto da Hoover, il quale sapeva benissimo che i Kennedy non lo avrebbero confermato alla guida dell’Fbi. E lo stesso Johnson detestava i Kennedy, che lo trattavano come una cameriera». Si ritrovarono tutti, la sera prima del delitto, nella villa del petroliere Clint Murchinson: c’erano Johnson, Nixon e Hoover, e per la Cia era presente Howard Hunt, il braccio destro di Allen Dulles (il capo silurato da Kennedy). E oltre a Johnson e Nixon c’era un altro futuro presidente: George Bush, di lì a poco direttore della Cia.
Al party c’era anche Madeleine Brown, che da Johnson avrebbe avuto un figlio: è lei a confermare che, all’arrivo di Hoover, i potenti si appartarono per un’ora. Dal summit, Johnson uscì visibilmente sollevato: «Mi prese per un braccio – ricorda la donna – e mi spiegò che, dall’indomani, i Kennedy non sarebbero più stati un problema, per lui». In pubblico, più volte, li aveva definiti «i rampolli della mafia irlandese». Ma quella della Brown non è l’unica testimonianza. A rivelare dettagli imbarazzanti sono ormai moltissimi protagonisti. Uno è lo stesso Howard Hunt, poi implicato nel Watergate: in punto di morte (gennaio 2007), l’ex dirigente Cia consegna al figlio una confessione registrata in cui elenca i principali autori del complotto. Racconta tutto anche Chauncey Holt, tipografo ed esperto d’armi al servizio del mafioso Mayer Lansky, anch’esso legato alla Cia. Holt è uno dei tre famosi “vagabondi” arrestati a Dallas dopo l’omicidio e poi rilasciati. Racconta, nella sua confessione (muore nel 1997), di aver preparato per la Cia i falsi documenti di identità destinati a Oswald. Secondo Holt, Oswald è stato tradito dalla stessa agenzia di intelligence, per cui lavorava: «Ho sempre avuto simpatia per Oswald», dice. «E non mi sembra giusto che lui, o i suoi figli, debbano portarsi addosso per sempre quelle stigmate».
Anni dopo, la vedova – Marina Oswald – si espresse in modo esplicito: «Vorrei che le persone che ne hanno il potere, e che accusano Lee, dimostrassero finalmente la sua colpevolezza. Mettano sul tavolo le prove». Nel documentario che gli americani non hanno potuto vedere, e che Mazzucco utilizza largamente per la sua ricostruzione del 2009, abbondano invece le prove a carico dei personaggi che ruotarono attorno a Oswald. Indizi convergenti, conferme. Anello di congiunzione: il vero killer, James Files, ora detenuto a Stateville (30 anni, per tentato omicidio di due poliziotti). Nel 1963, Files è autista e guardia del corpo di Chuck Nicoletti, killer mafioso della “famiglia” di Chicago comandata da Tony Accardo e Sam Giancana. Ha solo 21 anni ma è stato oltre un anno nelle forze speciali Usa in Laos. Racconta: nel novembre ‘63 lo mandano a Dallas a ispezionare Dealey Plaza, dove Chuck Nicoletti e il “collega” Johnny Rosselli sono stati incaricati di uccidere Kennedy. «Dovevo controllare tutto, passaggi di tram e treni», dice Files. «Loro conoscevano già gli orari del corteo presidenziale».
La mattina del 22, Nicoletti chiede a Files di fargli da tiratore di riserva. Al che, Files sceglie il luogo dove appostarsi: la sommità della collinetta erbosa, dietro una staccionata. Sembrerà un ferroviere, nessuno gli farà caso. Accompagnato da Rosselli, Nicoletti avrebbe sparato dal Dal-Tex Building, palazzo rosso di sei piani, accanto al famoso Book Depository di Oswald (un palazzo giallo, sempre di sei piani). Il compito di Files: sparare solo all’ultimo momento, e solo se Nicoletti (dal Dal-Tex Building) non fosse riuscito a colpire Kennedy alla testa. Arma: un fucile a canna corta Remington Xp-100, soprannominato Fireball. Piccolo, munito di cannocchiale, comodo da riporre in una valigetta. Munizioni: pallottole calibro 22 modificate al mercurio, preparate da uno specialista di Chicago. «La punta limata e forata col trapano, il mercurio inserito col contagocce». Pallottole poi «richiuse con della cera, in modo che esplodessero all’impatto». Nicoletti non è convinto: «Perché usi il Fireball, che ha un solo colpo?». Risponde Files: «Be’, se devo aspettare che tu abbia finito, quando toccherà a me avrò solo il tempo di sparare giusto un colpo. Non potrei mai spararne un secondo».
All’arrivo del corteo presidenziale da Elm Street, racconta Files, hanno cominciato a esplodere colpi da dietro. «Ho pensato che fosse Nicoletti, perché c’era lui nell’edificio, e sapevo che Johnny Rosselli era con lui. Sentivo partire i colpi, ma nonostante il presidente venisse colpito io lo consideravo mancato, perché sapevo che dovevamo colpirlo alla testa». Files ha Kennedy nel mirino del cannocchiale: «Capivo che era stato colpito nel corpo, ma non sapevo in che punto. Ho visto il corpo piegarsi, poi piegarsi ancora. Ho sentito un altro colpo andato a vuoto. Non dovevamo colpire nessuno eccetto Kennedy». Invece, il governatore John Connally era stato appena colpito, a sua volta, da Nicoletti: Files lo intuì, pur inquadrando quasi solo la testa di Kennedy. «Quando sono arrivato al limite del mio campo di tiro ho puntato sul lato sinistro della testa, perché se avessi aspettato ancora Jacqueline Kennedy sarebbe entrata nella traiettoria, e mi avevano detto che a lei non doveva succedere niente», racconta il tiratore. «In quel momento ho pensato: questa è l’ultima possibilità che ho di sparare». Poi spiega: «Io e Nicoletti abbiamo sparato quasi nello stesso istante: e la testa di Kennedy è andata prima avanti e poi indietro. Il proiettile di Nicoletti deve aver colpito un millesimo di secondo prima del mio, e questo ha spinto la testa di Kennedy in avanti. Così ho mancato l’occhio sinistro e ho colpito la tempia sinistra».
Perché il mondo continua a non sapere quasi niente, della confessione dell’assassino di Kennedy? Perché il caso non è mai stato riaperto, risponde Mazzucco: il detective Joe West non è sopravvissuto a lungo, dopo aver presentato la denuncia sulla base della confessione di Files. Che peraltro non era stato facile ottenere: si erano scritti, e Files negava di essere implicato nel caso. Un giorno, West riesce a telefonargli. «Ha tre minuti per convincermi del motivo per cui dovrei parlare con lei», lo avverte il killer. West inizia a parlare, ma Files lo ferma subito: «Stop, stai toccando molti argomenti delicati, e tutte le telefonate sono registrate». Di qui la concessione del colloquio in carcere. Il primo giorno, i due non toccano l’argomento. L’indomani però Files vuota il sacco. Spiega: «Joe mi sembrava una persona per bene, mi piaceva, aveva un certo magnetismo. Così, il secondo giorno ci siamo messi a parlare seriamente». Files ricostruisce la dinamica dell’omicidio, ma non rivela a West di essere stato lui a sparare dalla collinetta. «Joe voleva sapere dove mi trovassi io. Gli dissi: metto una X sul foglio, che indica me. “I was about here”. Ma questa X non è al posto giusto. Al momento giusto, gli dissi, metterò la X dove deve stare».
Il punto di svolta? L’indizio di Files per la riesumazione del corpo di Kennedy: «Spiegai a West che il presidente era stato colpito alla testa con un proiettile speciale, al mercurio. E gli dissi che poteva usare questa informazione in tribunale, per far riesumare il corpo, perché avrebbero trovato le tracce del mercurio – perché non scompaiono, rimangono per sempre». Presentata la causa, viene accettata dal tribunale. Ma West morirà poco dopo, per i postumi di quell’intervento clinico andato storto. «Morì senza sapere che io fossi uno dei due tiratori presenti quel giorno a Dealey Plaza», si rammarica West. «Non seppe mai che io ero sulla collinetta erbosa». Morto West, parte l’operazione-documentario: è agli autori del film che, finalmente, Files confessa il suo ruolo. Lo fa in memoria di West, a sua volta attivato dall’agente Zack Shelton. Ma il documentario viene letteralmente insabbiato. «Se diffuso dai grandi network – dice Mazzucco – un documentario come quello avrebbe imposto la riapertura del processo. E questo rischiava di portare alla luce le vere responsabilità dell’attentato e le trame oscure alle sue spalle». Così, si preferisce liquidare James Files come una specie di mitomane. Uno strano mitomane: muto per 28 anni. Se fosse stato in cerca di fama, avrebbe accettato di parlare col regista Oliver Stone, autore del film “Jfk”, che lo andò a trovare per ben tre volte in carcere. Niente da fare: «Quell’uomo non mi piaceva», dice Files.
In realtà, gli elementi a conferma della versione del “mitomane” sono schiaccianti. Tanto per cominciare: l’altro killer, Nicoletti, era a Dallas dalla mattina del 22 novembre insieme al suo compare Rosselli. Li aveva portati in auto – da Chicago – lo stesso Chaunsey Holt, il falsario che lavorava per la Cia, e che poi a Dealey Plaza avrebbe assunto il ruolo di “vagabondo”. Holt aveva ha con sé anche i falsi distintivi del servizio segreto, utilizzati dai due misteriosi personaggi che respinsero i curiosi dalla collinetta erbosa, permettendo a Files di allontanarsi con calma. Ricorda il killer: «Un poliziotto gettò a terra la sua moto e corse verso la collinetta con la pistola in pugno, ma due uomini in giacca e cravatta gli andarono incontro, gli mostrarono il distintivo e lo fermarono». Files spiega anche come il gangster Rosselli arrivò a Dallas: «Rosselli mi disse: sono stato fortunato, mi ha dato un passaggio un aereo della Cia». Lo conferma il pilota di quel volo, Tosh Plumlee: «La nostra squadra è partita da West Palm Beach, da un posto chiamato Lantana. Eravamo diretti a Tampa. Rosselli e altre due persone salirono a bordo, a Tampa. Andammo a New Orleans, dove due persone scesero e altre tre rimasero a bordo. Rosselli rimase a bordo. Andammo a Houston e, la mattina dopo (c’era brutto tempo) partimmo per Dallas. Charles Nicoletti non era su quel volo, ma era a Dallas».
Il filmato di Mazzucco si sofferma su dettagli feroci: Jackie Kennedy consegnò un pezzo di cervello (raccolto sul cofano della limousine) a uno dei medici che tentarono di salvare John al pronto soccorso. «Attraverso il cannocchiale del Fireball – racconta Files – ho visto la testa di Kennedy esplodere e la parte posteriore staccarsi: ho visto cervello, tessuti e capelli andare in tutte le direzioni, come uno spruzzo». L’agente Billy Hargis, il poliziotto che affiancava la coda della limousine, conferma: «Fui attraversato dalla “nuvola” del cervello esploso di Kennedy: sangue, ossa, roba. Più tardi un collega mi indicò un pezzetto di osso che mi era rimasto appiccicato in faccia, sopra il labbro superiore». William Harper, allora studente, trovò un frammento di osso cranico lungo 6-7 centimetri nel prato, nel punto in cui Kennedy era stato colpito da Files. Moltissimi testimoni oculari confermarono di aver visto una grande apertura nella parte posteriore del cranio di Kennedy. Poi però quello scempio scomparve miracolosamente, nella foto ufficiale dell’autopsia. Files se la rigira tra le mani: «Non è la foto giusta», dice, perché la parte posteriore del cranio di Kennedy, semplicemente, non esisteva più.
E Oswald? «Lo conoscevo da prima», ammette sempre Files. «Fu David Attlee Phillips a presentarmelo. Nella Cia, Phillips era il “controllore” di Oswald, nonché il mio». Fu Phillips a spedire Oswald da Files appena dopo il suo arrivo a Dallas. «Apro la porta e mi trovo Oswald davanti. Mi stupii che lui sapesse che mi trovavo lì. Gli ho chiesto: e tu che ci fai, qui? Lui: mi hanno detto di passare di qui e stare un po’ con te, nel caso avessi bisogno di aiuto. Mi disse: qualcuno vuole che ti mostri la zona». E’ Oswald a scattargli una foto (a torso nudo) nella stanza del suo motel di Dallas. Oswald accompagna Files a testare il Fireball e il cannocchiale. «Lee raccoglieva i bossoli e li teneva in mano: non volevo lasciarne in giro». Files non ha mai cercato la notorietà: tutt’altro. «Per 28 anni e mezzo – dice – nessuno sapeva che io esistessi. Tutto era tranquillo, nessuno aveva mai parlato. Poi un giorno si presenta Joe West. E da quel che ho capito, è stato l’Fbi a mettere in giro il mio nome. Quindi – aggiunge – bisognerebbe chiedere a loro perché hanno messo in giro il mio nome, perché mi hanno messo in vetrina: non l’ho certo voluto io».
Rimorsi, per aver ucciso Kennedy? «Per molti anni non ne ho provati», ammette Files. «Però, più il tempo passa… il rimorso è forse per come ne ha risentito il paese, per le conseguenze». Riflette: «Forse Kennedy aveva fatto qualcosa di buono, per il paese». Si domanda: «Era onesto?». Aggiunge: «Be’, un po’ di rimorso ce l’ho: magari non per lui, ma per la famiglia, i figli. Ma al tempo in cui agimmo, pensavamo che stessimo facendo la cosa giusta». Uomo della mafia italoamericana abituato a collaborare con settori della Cia, James Files ha l’aria di un detenuto modello. Parla con pacatezza: le sue parole sono precise. Una ricostruzione lucida. Non traspaiono turbolenze d’animo: del resto, a vent’anni Files era già un cecchino dei corpi speciali, una macchina da guerra. Un ragazzo progettato per uccidere. Gli unici sentimenti sono per il detective West: un brav’uomo, messo a tacere da chi non voleva la verità.
Se fosse emersa – dice Marina Oswald – il paese non l’avrebbe sopportata. Non avrebbe retto allo choc: il presidente assassinato dai suoi principali collaboratori, ormai in rotta con lui e decisi a usare killer della mafia protetti dagli 007. Un caso più che imbarazzante, e ultra-discusso: 500 libri, dozzine di film e documentari. Oggi, dice Mazzucco, la verità è finalmente emersa: l’omicidio Kennedy resta “un mistero” solo per Massimo Polidoro e i patetici debunker del Cicap. Non solo: dal penitenziario di Stateville, James Files – l’assassino – aspetta ancora che qualche inquirente si decida a bussare alla sua cella. L’America ha altro a cui pensare: e pochi mesi fa i media hanno letteralmente silenziato la clamorosa denuncia dei pompieri di New York, sulla “demolizione controllata” delle Torri Gemelle l’11 Settembre. Nel frattempo, John Fitzgerald Kennedy “riposa” nel cimitero di Arlington, in Virginia, da ormai 54 anni. Secondo il suo assassino, il cranio del presidente ucciso a Dallas presenterebbe ancora tracce evidenti di mercurio. Ma nessuno si prende la briga di andare a controllare.
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