di Mafe De Baggis - La libertà di espressione dovrebbe essere inalienabile: per il porno più porco, per la ricerca scientifica, per le stupidate. E se le piattaforme che ospitano questi contenuti vengono chiamate in causa?
Roma - Larry Flynt era un editore specializzato in pornografia, non quella patinata ed elegante alla Playboy, pornografia di quella porca, sporca e squallida. Flynt non si accontentava di fare palate di soldi con i suoi giornali: lui voleva veder riconosciuto il suo diritto a pubblicarli, diritto messo in discussione da una lunga serie di associazioni per la pubblica moralità che negli anni hanno cercato di impedirgli di invadere le edicole con nudi ginecologici e foto di amplessi ai confini della realtà. Larry Flynt ha combattuto la sua battaglia con tale veemenza da farsi sparare e non l'ha fatto nel nome del diritto alla libera impresa, già di per sé molto sentito negli Stati Uniti: l'ha vinta, come voleva, nel nome del Primo Emendamento, quello che permette a ogni cittadino americano di dire quello che pensa, anche se non ha nessun valore, anche se è ritenuto dannoso per la comunità, anche se viene ritenuto squallido dalla maggioranza delle persone. Non c'è bisogno di scomodare Voltaire per capirlo: la libertà di parola e di espressione non può e non deve dipendere da una validazione esterna della specifica parola e della specifica espressione.