lunedì 20 gennaio 2020

Bettino Craxi: quando la storia è davvero maestra di vita


Suo padre era una gran brava persona. Piccolo avvocato di San Fratello, dove nascono i migliori cavalli siciliani della omonima razza, emigrò in Lombardia per sfuggire alle persecuzioni del prefetto Cesare Mori nei confronti degli antifascisti dichiarati.
Iscritto da sempre al PSI, fu il primo prefetto di Como dopo la Liberazione.
In un clima di mangia-mangia, che passa anche per la privatizzazione del tesoro di Dongo che consentì al PCI di costruire la storica sede di via Delle Botteghe Oscure, lui rimase povero.
Preciso ai più giovani dei miei 25 lettori che non sono chiacchiere: Togliatti era solito prendere in giro la memoria di Mussolini affermando che il Papa lo aveva truffato quando gli aveva regalato un piatto d’oro massiccio, per i servigi resi alla Chiesa con la sottoscrizione del Concordato.
Spiegava che si trattava di argento rivestito d’oro, comunemente detto vermeille.
Il resto dell’oro, comprese alcune decine di chili di fedi donate alla patria, era stato tutto trasformato in piccoli lingotti in una fonderia di proprietà della famiglia Falk, ubicata a Domaso.
L’avvocato Craxi’ (è la pronuncia originaria di questo cognome siciliano) rimase povero e quando suo figlio Benedetto, detto Bettino, che aveva il vizio del gioco d’azzardo ed era pieno di debiti, decise di concorrere alla carica di segretario amministrativo del PSI per la provincia di Milano, perché notoriamente era l’ incarico più lucroso d’Italia per un socialista, il suo biscazziere di fiducia, Francis Turatello, pensò che non fosse un cattivo affare finanziarlo perché, corrompendo gli alti vertici del partito, l’incarico fosse assegnato proprio a lui.
Costo’ 50 milioni di lire e Turatello, nel supercarcere di Nuoro, dove scontava l’ergastolo, dopo il primo bicchiere di vino lo raccontava sempre ad alta voce a tutti gli altri detenuti.
Bettino non poté più tollerarlo, era diventata una questione di sicurezza nazionale. E fu così che durante l’ora d’aria Pasquale Barra , Vincenzo Andraous ed Antonino Faro, con i coltelli forniti loro da Salvatore Maltese, sbudellarono Turatello, e la leggenda vuole che avessero giocato a calcio col suo cuore.
Erano tutti e quattro appartenenti alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e sembra che Cutolo abbia voluto fare un favore ad Angelo Epaminonda, il catanese che voleva sostituire Turatello nella gestione delle bische clandestine.
La leggenda vuole che quando Turatello nascondeva Graziano Mesina a Milano, quest’ultimo abbia rapinato la bisca clandestina Brera Bridge Club e sia saltato su un tavolo gridando :”Visto cosa capita a chi viene a giocare in un posto dove si fanno le rapine? Forse vi conviene andare a giocare in Corso Sempione. Lì di rapine non se ne fanno”.
La Milano da bere sostiene che Bettino e suo cognato Pillitteri, oltre che dei soldi che si stavano giocando, siano stati derubati anche dei loro due primi Rolex, che entrambi portavano al polso.
Non voglio seguire passo per passo tutto il cursus honorum di Bettino, e mi sposto rapidamente all’uscita del PSI dal governo di centro-sinistra, con l’affermazione:”Mai più al governo se non con il PCI”.
In quel momento era stato nominato segretario del partito proprio il giovane Bettino, perché le litigiose correnti, compresa la famosa “sinistra ferroviaria” dell’onorevole Signorile, non avevano trovato un accordo, ed il giovanotto, che rappresentava solo se stesso o poco più, era considerato un uomo che avrebbe gestito l’ordinaria amministrazione senza fare ombra ai big del partito.
Credo che nella fama di valutazioni clamorosamente sbagliate che contraddistingue la lunghissima storia del PSI, sia l’errore più clamoroso, insieme con la carriera fatta fare a Mussolini.
Con singolare tempestività fu sequestrato il figlio dell’onorevole Di Martino per la cui liberazione venne chiesto un miliardo di lire.
Bettino aprì subito una pubblica sottoscrizione fra gli imprenditori amici del partito, ed in particolare un piemontese, proprietario della Venchi Unica, raggiunse subito quella cifra in contanti, e con un aereo privato mando’ la sua segretaria a Ciampino, dove la ragazza consegnò la valigetta che conteneva la somma al dottor Guy Vaudagna, segretario del presidente della Banca Nazionale del Lavoro, Nerio Nesi.
Quest’ultimo non volle neanche aprire la valigetta e disse al segretario di portarla, così com’era, all’ onorevole democristiano Attilio Ruffini, perché, a suo dire, era lui che aveva trovato il canale di negoziazione con i rapitori di Guido De Martino.
Sono così preciso, perché Guy Vaudagna e Neri Nesi li ho interrogati personalmente io dieci anni dopo a Milano.
La famosa segretaria non era rintracciabile perché, emigrata in Sud America, era scomparsa come se inghiottita da un buco nero.
Ruffini invece negò tutto, dichiarando che si trattava di calunnie del PSI contro la Democrazia Cristiana.
L’onorevole De Martino, invece, disse che della colletta organizzata da Craxi lui non aveva visto una lira e che il miliardo pagato ai sequestratori era stato raccolto fra imprenditori napoletani amici suoi.
Tutte le banconote erano state fotografate ed accadde una cosa singolare: tre giorni dopo la liberazione, due di esse erano state spese a Rimini da un emigrante italiano in Germania, che si trovava nella località balneare per le sue vacanze estive.
L’uomo, interrogato, spiegò che a Francoforte, dove viveva, era andato presso la propria banca per cambiare un po’ di marchi il lire. Se ne deduce che, poche ore dopo il pagamento del riscatto, esso già si trovava, in tutto o in parte, in una banca della Germania Federale.
Cosa vuol dire? Spiegatemelo voi, io sono solo uno sbirro di campagna.
Anche gli esecutori materiali del sequestro furono arrestati.
Si trattava di due giovani scippatori del rione Sanità e di un vecchio pregiudicato di Spaccanapoli.
I tre avevano tenuto il sequestrato nella villa campana di un architetto napoletano iscritto al PSI. Era un immobile abbandonato di pregio e l’ architetto dichiarò di aver fornito loro le chiavi d’ingresso e dei cancelli, perché si erano impegnati a cercare un eventuale acquirente.
Anche l’architetto, comunque, è emigrato in Venezuela ed è scomparso nello stesso buco nero della segretaria.
Il primo degli scippatori, quando fu arrestato e venne portato davanti al sostituto procuratore dottor Marmo, aveva l’aria di chi volesse pentirsi anche di essere nato.
Erano presenti il carabiniere che batteva a macchina ed anche un uditore giudiziario.
Dopo pochi minuti, a richiesta di Marmo, l’uditore giudiziario ed il militare dell’Arma furono invitati ad uscire ed il magistrato rimase solo col giovanotto per circa mezz’ora.
Quando fu ripresa la verbalizzazione, la sua sostanza era questa: De Martino possedeva un tesoro in Svizzera e questo era il motivo del sequestro di suo figlio. E la notizia apparve subito sui giornali. De Martino, dopo la liberazione di suo figlio, si ritirò a vita privata, e Bettino, giovane segretario di transizione nominato solo per il disbrigo degli affari correnti, fu riconfermato segretario con pieni poteri, che usò sempre per tenere il PCI lontano dal potere. Sereno Freato, il segretario di Aldo Moro, racconta che tornando a Roma da Napoli, dove aveva avuto un colloquio privato con De Martino, gli disse che l’indomani avrebbe chiesto misure di tutela per i propri figli. Ed invece fu proprio lui ad essere sequestrato. Il sequestro De Martino come prova generale del sequestro Moro, visto in chiave anti PCI.
In ogni caso i tre responsabili materiali, grazie al loro pentimento, furono condannati al minimo della pena.
Tra le dichiarazioni che avevano reso, c’era quella che, prima ancora dell’attuazione del sequestro, si erano messi d’accordo con tre delinquenti milanesi, Bossi Ugo, Corniglia Federico e Naviglia Umberto, cui erano destinate le banconote del riscatto, per essere riciclate.
Un accordo raggiunto prima del sequestro comporta per tutti l’accusa di concorso in sequestro di persona.
I magistrati napoletani, misteriosamente, la pensavano diversamente. Stralciarono la posizione di Bossi, Corniglia e Naviglia e la mandarono alla Procura di Milano, a loro modo di vedere territorialmente competente.
Lì langui’ per dieci anni, nel cassetto più riposto del procuratore Mauro Gresti, che all’epoca mi disse di essere grande amico personale di Nerio Nesi.
Quando finalmente si impadronì del fascicolo il giudice istruttore Giorgio Della Lucia, questi , seguendo le indicazioni del marsalese colonnello Cucchetti, che aveva in mente da sempre l’arresto di Bettino, mi fece mettere sotto controllo il telefono di Marcello Dell’Utri, e mi mandò a Roma a convocare Guy Vaudagna e Nerio Nesi, notificando loro il decreto di sequestro del conto corrente del PSI mantenuto presso la BNL.
L’ordine era firmato un giorno prima dallo scoccare de decimo anno dalla consumazione del sequestro e fu da me notificato esattamente il giorno dopo.
Quel marpione di Nesi se ne accorse e mi disse :” Capitano, spero che non abbiamo già mandato tutto al macero”.
Evidentemente non c’era niente di compromettente in quel conto, perché, una settimana dopo, Nesi e Vaudagna si presentarono davanti all’ufficio di Della Lucia con un trolley pieno di carte, trascinato dal segretario. Fecero due ore di anticamera, perché il giudice era andato a mangiare con il finanziere che svolgeva le mansioni di dattilgrafo e la sua segretaria giudiziaria.
Dopo un’ora Vaudagna voleva andarsene, incaricando me di fare presente al giudice che loro erano arrivati puntuali, ma Nesi gli dette l’ordine perentorio: ” Non deve mancare per noi!”.
Ed infine, alle 14.15, Della Lucia li ricevette.
Ora sono molto stanco, questa influenza che non se ne vuole andare mi tortura e cerco di trovare una via d’uscita che non vi lasci troppo insoddisfatti.
Il sette o l’otto gennaio del 1987 Dell’Utri ricevette una telefonata da Silvio Berlusconi che verso le 18.30 gli comunicava, da Arese, che Bettino “profumato come un caprone” se ne era appena andato, incazzatissimo, perché le due ragazze di Drive In che gli avevano dato appuntamento la notte di Capodanno per consumare con lui un pomeriggio d’amore, non si erano fatte vive.
Potrei raccontarvi del parrucchiere di Corso Buenos Aires cui Dell’Utri faceva al telefono continue scenate di gelosia. Potrei raccontarvi della misteriosa influenza che aveva su Dell’Utri l’onorevole Staiti di Cuddia.
Potrei ancora narrarvi della misteriosa potente influenza del campione motonautico Renato Della Valle e dell’ansia di Dell’Utri per trovare un elicottero che portasse Della Valle al traguardo della Viareggio-Bastia-Viareggio, perché premiasse personalmente il vincitore.
Tante altre cose potrei raccontarvi ancora. compreso il fatto che il giudice Della Lucia fu corrotto da Filippo Alberto Rapisarda e dall’avvocatessa sua moglie. La prima se lo portò a letto e gli fece perdere letteralmente la testa, mentre suo marito lo tempestava di Rolex d’oro massiccio da collezione, che il giudice millantava con me essere l’eredità di suo padre. Condannato e rimosso non so che fine abbia fatto.
Concludo con una considerazione.
Quando morì il vecchio avvocato Craxi’, dopo una lunga agonia, al suo capezzale c’era solo il nipote Bobo, che vegliò il moribondo per ore e si sciolse in un pianto disperato subito dopo la dipartita.
Vi sottaccio delle proprietà immobiliari di Bobo nel centro storico di Milano per non alienarvene la simpatia.
Su Wikipedia, l’enciclopedia dei fanfaroni, leggerete che Bettino era alto 192 cm. Vi assicuro che ce ne sono dieci di troppo.
Quello che non ci troverete me lo ha raccontato Elio Licari di Marsala, e me lo ha confermato l’Ammiraglio Martini.
Durante la sua lunga estate ad Hammamet, Bettino riceveva quelli che sarebbe stato imbarazzante accogliere a Palazzo Chigi .
Da Marsala soprattutto Pietro Pizzo e lo stesso Elio Licari.
Credo che il restauro del seicentesco Teatro Comunale sia nato sotto le palme della residenza tunisina di Bettino.
Ed anche la presidenza dell’Ente Teatro a Licari, che chiamava Maestro Giorgio Streilher, sia frutto di una negoziazione non estranea a cospicui rimborsi spese.
Io sono uno sbirro di campagna e già all’epoca avevo capito che gli intrallazzi dei socialisti erano al di sopra delle mie possibilità.
Quindi mi limitavo a perseguire i mafiosi all’antica, con discreto successo.
Il mio successore, capitano Fraccalvieri, che aveva un passato di grande guerriero nel nostro Battaglione Paracadutisti, ed era geloso di me, quando due giovani brigadieri senza macchia e senza paura gli dissero di essere certi che Licari fosse un corrotto, elaborò insieme con loro un piano molto ardito.
Scrissero una lettera anonima in cui chiedevano al presidente dell’Ente Teatro una tangente di 50 milioni di lire.
Licari andò all’appuntamento senza i 50 milioni ma non trovò il capitano, che era rimasto in ufficio a coordinare.
I due sottufficiali, invece, ritennero che i loro miniregistratori avessero raccolto delle dichiarazioni che erano sicure ammissioni di colpa.
Dichiararono quindi Licari in stato di fermo di polizia giudiziaria e lo portarono dal Procuratore Borsellino.
A lui, Licari, nel dichiararsi vergine come una novizia, disse che sul tavolo della cucina di casa sua aveva lasciato una memoria in cui dichiarava di essere oggetto di una tentata estorsione e che era andato all’appuntamento solo per vedere fino a che punto si sarebbero spinti gli estorsori.
Borsellino non poté far altro che scusarsi con il Licari e rimandarlo a casa.
Il PSI marsalese si strinse intorno al Licari e la montagna del fango contro i due sottoufficiali li ha immersi nel gorgo che ha rovinato per sempre la loro vita professionale.
Tutti, magistrati e superiori, sapevano che avevano ragione da vendere, e tutti attribuivano al Fraccalvieri la responsabilità di averli spinti su una china così perigliosa, restandosene a guardare alla finestra.
Succedeva nell’87 e solo oggi, trent’anni dopo, essi sono usciti completamente puliti da tutti i procedimenti intrapresi contro di loro.
Licari venne a Milano per incontrarsi con Streilher e volle che mangiassimo insieme.
Sperava di ottenere da me informazioni utili per screditare i miei ex sottoposti.
Io gli dissi che erano due gran bravi giovani, e non potendo dirgli che lo ritenevo comunque corrotto, parlai di commedia degli equivoci, in cui ognuno aveva pensato il peggio dell’altro, fino al punto da farsi un un’irreparabile danno reciproco.
Attribuii comunque ogni colpa a Fraccalvieri, che non aveva avuto la sagagia di comprendere che il buon ufficiale combatte solo le guerre che è certo di potere vincere.
Nella circostanza Licari mi rivelò che Bettino, ogni estate, si allontanava da Hammamet ed andava ad Hamman, a bordo del jet personale di Re Hussein di Giordania, che gli metteva a disposizione una villetta alla periferia della città, dove egli intratteneva rapporti personali con i capi della resistenza palestinese.
L’Ammiraglio Martini, molti anni dopo, me lo confermò, aggiungendo che il jet Executive del re, durante la sua lunga crociera, era scortato da aerei da caccia israeliani, che erano perfettamente al corrente di quanto stava accadendo sotto il loro naso.
Resto convinto che Bettino è sopravvissuto a Mani Pulite, pur in esilio, per tutti i loschi segreti statunitensi che custodiva.
Via Bettino Craxi? Perché no? Una traversa che congiunga via Giulio Andreotti con via Benito Mussolini.

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