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mercoledì 9 dicembre 2020
Newsletter Thomas Torelli: "Il sentiero della Gioia" è uscito il mio nuovo libro!
martedì 8 dicembre 2020
lunedì 7 dicembre 2020
Magaldi: dall’8 dicembre, stop al lockdown dei mascalzoni
«Ci sono momenti, nella storia, in cui bisogna saper combattere per la propria libertà». Quel momento, a quanto pare, è arrivato: «Chi ha il coraggio di essere sanzionato, e magari fermato, venga con noi a violare il coprifuoco». Gioele Magaldi annuncia che si sta avvicinando l’ora della protesta definitiva, dalla quale non si torna indietro, per mettere fine alla “dittatura sanitaria” che si è letteralmente impossessata del paese. «Adesso basta, non c’è più tempo: il Movimento Roosevelt presenterà al governo Conte un ultimatum, per chiedere di mettere fine al massacro sociale degli italiani». Magaldi, spiega che l’ultimatum – pronto nelle prossime ore – scadrà l’8 dicembre. «Se sarà disatteso, scenderà in campo la Milizia Rooseveltiana: ignoreremo platealmente il coprifuoco e tutte le assurde restrizioni imposte con la scusa del Covid, dando vita ad azioni eclatanti. Sempre lealmente annunciate a viso aperto, e senza mai provocare le forze dell’ordine, saranno destinate a svegliare chi ancora non ha capito quello che sta succedendo». Ovvero: «Col pretesto di una presunta pandemia si sta letteralmente devastando in modo irreversibile l’economia». Già si parla di un Natale “blindato”: «Gli italiani devono capire che, proprio grazie alla loro rassegnata obbedienza, c’è chi pensa di prolungare questa emergenza all’infinito».
Non a caso, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, dopo che i medici hanno espresso le prime perplessità sul vaccino anti-Covid, che verrebbe distribuito senza aver completato i test ordinari per le vaccinazioni, che richiedono anni, gli ambienti governativi già si affrettano a dire che il vaccino (fino a ieri presentato come panacea assoluta) potrebbe non bastare per mettere fine alla politica del distanziamento. «Ci rendiamo conto della gravità della situazione?», si domanda Magaldi. «Ormai credono di poter trasformare in “normalità” questa prassi aberrante: sospendere libertà e democrazia, alle prime avvisaglie di una qualsiasi epidemia. Ma così facendo si uccide l’umanità: la si costringe a smettere di vivere, lavorare, andare a scuola, socializzare. Ebbene: noi glielo impediremo». Magaldi conta sulle performance dimostrative, «teatrali ma risolute fino alla massima durezza», della Milizia Rooseveltiana, formazione simbolicamente paramilitare: «Il suo nome richiama di proposito la milizia fascista, in modo provocatorio, proprio per evocare il fantasma della dittatura». Di fatto, la Milizia – agendo anche di notte, a partire da Roma – compirà «azioni clamorose, anche se nonviolente, destinate a svegliare le “pecore” che ancora tremano, indossando la mascherina».
domenica 6 dicembre 2020
VACCINO / BUSINESS, INSIDER TRADING, CONFLITTI D’INTERESSE: CHI E’ “MODERNA”
Un autentico ginepraio di affari stramilionari, di conflitti di interesse, di turbinose compravendite azionarie, di misteriose partecipazioni societarie. Di personaggi equivoci.
Di tutto e di più nel gigantesco calderone della sigla oggi al top dell’attenzione internazionale, la statunitense Moderna Inc., che ha appena annunciato al mondo il lancio del suo super vaccino, in grado di superare le performance di quello prodotto da Pzifer, perché è efficace – secondo i suoi autori – al 94,5 per cento (contro il 92 per cento) e può essere conservato comodamente per 30 giorni anche nel frigorifero di casa (invece delle temperature polari per il gioiello di Pfizer).
IL SOCIO ARMENO-LIBANESE
E un grande alone di mistero circonda il suo fondatore, animatore e socio di maggioranza, un libanese (è nato a Beirut) di origini armene, il cinquantottenne Noubar Afeyan. Il quale di tutta evidenza è in ottimi rapporti con Bill Gates, il fondatore di Microsoft e vero padrone dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità: la Bill and Melinda Foundation, infatti, quattro anni fa ha fatto un bel cadeau a Moderna, per un valore da 20 milioni di dollari.
Scorriamo, in rapida carrellata, il nutrito elenco degli azionisti di Moderna, una piccola start up nata dieci anni fa che nei seguenti dieci ha fatto registrare uno dei più colossali boom nella storia dell’industria farmaceutica a stelle e strisce.
Al primo posto assoluto l’uomo d’affari libanese, che detiene azioni sia a livello personale, quasi il 20 per cento dell’intero pacchetto, sia a bordo della sua Flashing Pioneering Inc., con un altro bel 18 per cento.
Un miliardario-filantropo proprio come l’amico Bill Gates. Tra le creature tanto umanitarie di Afeyan, infatti, spiccano IDeA Foundation, 100 Lives, UNC DILIJAN School. Inoltre, il magnate mezzo armeno finanzia concerti e scuole di musica. Un bel concerto.
sabato 5 dicembre 2020
Brogli, l’élite trema: crolla il sistema, se la spunta Trump
Il canale YouTube “Investire da zero” ipotizza sviluppi potenzialmente sconvolgenti, per le presidenziali americane del 3 novembre. Al termine della notte elettorale, Trump era in vantaggio in tutti gli Stati-chiave, e quindi poteva contare su un numero sufficiente di grandi elettori per essere riconfermato alla Casa Bianca. Poi, il voto per posta e il prosieguo dei conteggi (che si erano interrotti) ha invece capovolto la situazione, a favore di Biden, proprio in quegli Stati. Tra il 5 e il 6 novembre, Trump ha presentato ricorso in 6 Stati (Pennsylvania, Nevada, Georgia, Michigan, Wisconsin e Arizona) denunciando brogli e irregolarità tali da invalidare i risultati. In realtà, secondo Trump, si sarebbe alterato il voto anche in diversi altri Stati, anche se in modo non determinante. Gli Stati-chiave hanno rigettato la revisione richiesta di Trump, con la sola eccezione della Georgia (dove il distacco tra i due candidati era risultato millimetrico). Sembrava quindi una pessima notizia, per Trump: come se si dovesse rassegnare a vedere Biden alla Casa Bianca. Invece, le cose potrebbero stare in maniera diametralmente opposta. E cioè: è possibile che Trump avesse tutto l’interesse a veder rifiutate le sue richieste di riconteggio nei singoli Stati, perché solo così è possibile accedere alla Corte Suprema.
Nelle elezioni americane, se una delle parti ritiene ci siano stati errori o irregolarità può rivolgersi alla Corte del singolo Stato, che valuterà se procedere o meno alla verifica. Se però il singolo Stato rigetta la richiesta, il ricorrente – a quel punto, e solo in quel caso – può rivolgersi alla Corte Suprema. Oggi, dopo i lunghissimi riconteggi, il presidente eletto sarebbe Biden, con 306 grandi elettori, contro i 252 attribuiti a Trump. Ma a questo punto, dato il rifiuto delle Corti statali di procedere all’ulteriore verifica per via giudiziaria, la palla passerà alla Corte Suprema. In questo periodo, intanto, Trump ha affermato con certezza granitica che ci siano stati brogli, ma non ha fornito prove concrete. Questo è stato interpretato come la dimostrazione del fatto che, in mano, avesse ben poco. In realtà, il fatto di non esibire prove in questa fase è persino ovvio: se si conta di appellarsi alla Corte Suprema, confidando dunque nell’apertura di un processo, è naturale non scoprire le proprie carte. Non devi dare alcun vantaggio alla controparte: che potrebbe inquinare prove o condizionare testimoni. Il silenzio sulle prove, da parte di Trump, ha quindi perfettamente senso: le loro prove le porterebbero solo alla Corte Suprema, nel momento in cui questa dovesse accettare il ricorso (o meglio: i ricorsi, perché sono 6). E la Corte Suprema si pronuncerebbe su ogni singolo Stato, spiegando se esistono gli elementi per aprire l’inchiesta.