domenica 12 aprile 2020

Lutto in casa Kennedy, e va a fuoco la casa di Mario Draghi

Il rogo di Notre-Dame de ParisDraghi e Kennedy: due nomi ora anche nelle pagine di cronaca nera, pochi giorni dopo l’uscita mondiale del brano “Murder Most Foul”, in cui Bob Dylan rievoca il complotto del Deep State costato la vita a John Kennedy, ucciso a Dallas nel 1963, mettendolo in qualche modo in relazione con l’attuale emergenza coronavirus. Una denuncia clamorosa, quella di Dylan, in contemporanea con quella di Mario Draghi sulle pagine del “Financial Times”, in cui l’ex presidente della Bce – richiamandosi al New Deal di Roosevelt – invoca la fine del rigore finanziario, se si vuole ricostruire l’economia disastrata dalla pandemia. Pochi giorni dopo le esternazioni di Dylan e Draghi, è scomparsa nel nulla Maeve Kennedy Townsend McKean, nipote quarantenne di Bob Kennedy, fratello di John, a sua volta assassinato (a Los Angeles, nel 1968). A una settimana dalla scomparsa – in mare – Maeve Kennedy è stata quindi ritrovata cadavere il 7 aprile, lungo le coste del Maryland. E in serata, a migliaia di chilometri di distanza – a Città della Pieve – i vigili del fuoco sono dovuti accorrere per spegnere lo strano incendio innescatosi nella residenza italiana di Mario Draghi, proprio mentre a Bruxelles era riunito l’Eurogruppo. Le fiamme hanno intaccato il tetto dell’abitazione (sempre il tetto era stato incenerito dal rogo della cattedrale parigina di Notre-Dame, esattamente un anno fa, dando il destro a suggestive interpretazioni simbologiche tra chi sospetta l’origine dolosa del disastro).
Secondo il “Corriere dell’Umbria“, i pompieri intervenuti a Città della Pieve, al confine con la Toscana, avrebbero rilevato nella canna fumaria l’origine dell’incendio che ha poi attaccato il tetto della casa italiana di Draghi. L’ex presidente della Banca Centrale Europea, ricorda il giornale, è anche «il potenziale candidato alla presidenza del Consiglio nella successione a Giuseppe Conte in caso di governo di unità nazionale». Secondo Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt (nonché autore del saggio “Massoni”), Mario Draghi – fino a ieri militante nell’ala più reazionaria della massoneria sovranazionale, responsabile dell’austerity europea che ha sabotato l’economia – si sarebbe avvicinato al circuito della massoneria progressista, del quale (assicura Magaldi) fa parte lo stesso Bob Dylan, la cui canzone kennedyana – pubblicata non a caso in piena emergenza coronavirus – richiama l’attenzione su John Kennedy per ricordare la fine violenta delle speranze in un mondo migliore, imposta da un attentato particolarmente infame, che vide coinvolti la Cia, l’Fbi e tre diversi futuri presidenti americani (Johnson, Nixon e Bush senior).
Sempre secondo Magaldi, Draghi sarebbe ora sceso in campo per sostenere la “controffensiva democratica” delle forze che – in tutto il mondo, in modo trasversale – tentano di opporsi alla “politica del coronavirus”, che in base al modello cinese sperimentato a Wuhan con la benedizione dell’Oms impone severe restrizioni alle libertà personali, che qualcuno spera diventino permanenti. Magaldi denuncia la “filiera del rigore” inaugurata nel 1975 dal manifesto “La crisi della democrazia” sollecitato dalla Commissione Trilaterale dominata da Kissinger, il potente “massone neoaristocratico” che per primo sdoganò la Cina con l’intento di farne un modello anche per un futuro Occidente post-democratico, quello che si intravede oggi sotto le legislazioni speciali introdotte grazie alla paura del virus. Nel suo lavoro editoriale, Magaldi fa risalire proprio all’uccisione di John Kennedy (seguita a ruota da quelle di Bob Kennedy e Martin Luther King) la fine della speranza in un Occidente Mario Draghimigliore, prospero e libero dall’angoscia, patria dei diritti sociali e civili. Dopo di allora, a partire dal golpe cileno del 1973, il neoliberismo è andato direttamente al governo, fino a produrre in Europa la catastrofe socio-economica che ha schiantato l’Italia, fermandone la corsa (il Belpaese era la quinta potenza industriale del mondo, prima che Mani Pulite rottamasse la classe politica della Prima Repubblica).
Fa impressione, intanto, l’ennesimo lutto in casa Kennedy ad appena una settimana di distanza dall’omaggio di Dylan a Jfk (oltre 2 milioni e mezzo di visualizzazioni su YouTube, in pochi giorni, per “Murder Most Foul“). Il corpo senza vita di Maeve Kennedy Townsend McKean è stato ritrovato in mare nella Baia di Chesapeake. Il cadavere di Maeve è stato localizzato a sette metri di profondità, quattro chilometri più a sud rispetto alla casa di sua madre a Shady Side, nel Maryland, dove giovedì sera la donna era uscita in canoa insieme al figlio Gideon, di 8 anni, che risulta ancora disperso. Madre e figlio sarebbero stati visti per l’ultima volta allontanarsi a bordo di un kajak: secondo fonti di stampa «stavano cercando di recuperare una palla, ma a causa della corrente non erano più riusciti a tornare a riva». Maeve era la figlia di Kathleen Kennedy Townsend, vice-governatrice del Maryland, a sua volta figlia di Robert Kennedy, fratello di John. Era Maeve Kennedy col figlio Gideon e gli altri familiarisposata con David McKean, avvocato di diritti civili a Washington, ed era madre di quattro figli. Lavorava come dirigente alla Georgetown University di Washington, dove risiedeva con la famiglia.
Inevitabilmente, i giornali riparlano della “maledizione” della famiglia Kennedy, dopo le perdite di John e Bob. Qualche mese fa era morta un’altra nipote di Robert Kennedy, Saoirse Hill, deceduta a 22 anni «in seguito a un mix letale di droga e farmaci». Un altro fratello di John e Bob, Joseph Kennedy, era morto nel ’44 durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre una sorella, Kathleen, aveva perso la vita nel ’48 in un incidente aereo. Risale al 1984 la morte di David Kennedy, figlio di Robert, ucciso «da un’overdose di farmaci», mentre nel ’97 è scomparso un altro dei figli, Michael, in un incidente sulle piste di sci. Ancora: nel ‘99 aveva perso la vita uno dei figli di Jfk, John, insieme alla moglie e alla cognata, in un incidente aereo lungo la costa di Martha’s Vineyard, in Massachusetts. Nel 2011, infine, ancora una morte prematura: quella di Kara, figlia di Edward Kennedy, «stroncata da un infarto». Lo stesso anno si sarebbe suicidata Mary Richardson, moglie di Robert Kennedy jr., notissimo avvocato, in prima linea – insieme all’attore Robert De Niro – contro gli abusi delle campagne vaccinali e nella denuncia della correlazione tra vaccini e autismo. Robert junior è l’ennesimo Kennedy che dà fastidio al potere (in questo caso, sanitario: quello che si sta affermando a livello mondiale, grazie alla gestione “cinese” del coronavirus raccomandata dall’Oms). Un contesto sinistro, che fa da contorno anche alla strana morte di Maeve Kennedy?

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venerdì 10 aprile 2020

Moby Prince / Dopo 30 Anni A Processo Trasporti & Difesa


Dopo quasi 30 anni dalla tragedia, la polizia restituisce alcuni oggetti ai familiari delle 140 vittime. Mentre la giustizia di casa nostra non è neanche capace di portare un briciolo di verità.
E’ la tragica fotografia dello stato comatoso – e penoso – della Giustizia (sic) nel Belpaese, sempre più calpestata in tanti, troppi buchi neri nei quali è sprofondata la nostra storia.
Stiamo parlando della strage del Moby Prince, quella notte del 10 aprile 1991, quando la motonave si schiantò contro la petroliera Agip Abruzzo e tutto finì in un atroce rogo, 140 cadaveri carbonizzati (139 per la precisione, perché uno morì annegato).
Come autentico relitto, ora, riemerge uno scatolone zeppo di orologi, fotografie, occhiali, biglietti d’albergo e via ricordando, gli oggetti custoditi per trent’anni chissà dove e ora, chissà perché, restituiti dalla Stato ai familiari delle vittime.
Mentre tra un mese si terrà la prima udienza, al tribunale di Firenze, per la causa intentata dai familiari contro i ministeri della Difesa e dei Trasporti, che finora non hanno sganciato un euro per i risarcimenti. Ai confini della realtà: dopo 30, trent’anni nei quali, appunto, ai familiari è stato negato uno straccio di giustizia.
Inchiesta fatta con i piedi, processi altrettanto da brividi, le evidenti responsabilità griffate Stati Uniti sepolte in mare, e dentro una nebbia che più sporca e fitta non si può.
Una nebbia che quella sera del 10 aprile non c’era. Totalmente inventata dagli inquirenti che hanno issato il primo muro di gomma proprio con quella nebbia presunta killer. Ed invece, come hanno rivelato altre indagini, quella sera il cielo era magicamente terso. Uccisi due volte, quindi, e avvolti nella nebbia!
Del tutto minimizzate, durante le udienze processuali, anche le carenze e negligenze nei soccorsi. E nemmeno presa in considerazione una pista più che valida, quella della “nafta”.
Tracce di nafta sono state rinvenute nell’unico passeggero trovato annegato: aveva nafta nella trachea e nei vestiti.
Ma chissenefrega.
A riversarsi in mare avrebbe dovuto essere solo il greggio e non la nafta, che invece era copiosa.
Da dove arrivava? Una pista viene dalle registrazioni radio. Emerge, infatti, che ad incendiarsi sia stato il locale-pompe. “Sono Paoli, vedevo che dal locale pompe esce parecchio fumo”, dice il comandante della Sicurezza Agip ai soccorritori. Che rispondono: “E’ il locale pompe, c’eravamo proprio noi a tirarci dell’acqua sopra”.
Se la petroliera stava pompando fuori nafta, vuol dire che lì doveva esserci anche un’altra imbarcazione che la stava ricevendo. E se c’era una terza nave, magari è per la sua presenza imprevista e non certo per una nebbia inesistente che il traghetto non è riuscito ad evitare la petroliera.

La Commissione parlamentare d’inchiesta, del resto, parla in più punti di un ostacolo che “avrebbe portato il comando del traghetto ad una manovra repentina per evitare l’impatto, conducendo tragicamente il Moby Prince a collidere con la petroliera”.
Ma di tutto questo la magistratura se ne frega.

giovedì 9 aprile 2020

Covid 19 – Le Oscure Vie Del Tampone


Paziente uno dove sei? Da dove arrivi veramente? Nessuno più sembra interrogarsi sull’originaria fonte di contagio che ha sterminato gli abitanti delle province di Bergamo, Brescia, Cremona e città limitrofe. Se non per la bella notizia, arrivata qualche ora fa, che è nata la bambina di Mattia, considerato da sempre il “paziente uno”. Lo ricorderete, quel trentottenne alto e robusto di Codogno, che avrebbe infettato la Lombardia e l’Italia intera per essere andato a cena con un collega di ritorno da un viaggio d’affari in Cina.

Un reparto di terapia intensiva
Ma sono davvero andate così le cose? E la leggenda, in qualche modo ormai rassicurante, sul “portatore sano” del virus (l’amico di Mattia tornato dalla Cina, sulla cui identità e sul cui destino mancano notizie), basta a spiegare ciò che finora rimane avvolto da un macabro, pesante mistero, e cioè l’esplosione, in quelle produttive e ordinate province lombarde, dotate di presidi sanitari all’avanguardia in Europa, di un contagio che non ha e non avrà mai uguali, per numero di infetti e di deceduti, in nessun’altra parte del mondo intero?
Di sicuro, dati alla mano, Brescia resta uno dei tragici focolai della malattia, con 1.753 morti (ad oggi, 8 aprile) dall’inizio dell’epidemia, di cui 58 solo nelle ultime 24 ore: un boom di contagi sulle cui cause nessuno ha saputo finora offrire una spiegazione logica, o quanto meno accettabile. E nel giorno in cui finalmente la Procura di Bergamo – notizia di questi ultimi minuti – apre un’inchiesta per accertare quali siano state le cause effettive della strage in zona, gli interrogativi sono sempre più legittimi.

Ma davvero questa ecatombe può essere dipesa solo dall’amico dell’atleta Mattia?
E quali imprese locali avevano – ed hanno – intensi rapporti commerciali pressoché quotidiani con la Cina, o addirittura imponenti filiali laggiù?

La sede della Copan a Brescia
La risposta, per chi ha seguito attentamente l’andamento da brivido dell’epidemia in Italia, è scontata. Dal punto di vista delle localizzazioni, è Brescia il quartier generale della Copan, l’unica multinazionale che, grazie ad uno straordinario brevetto registrato nel 2004, fornisce tamponi per analisi virologiche in tutto il mondo. Compresa la Cina, dove l’azienda ha una sede stabile da anni a Shangai (oltre a quelle in Giappone, Stati Uniti e Porto Rico). Ed è proprio attraverso quel materiale brevettato che ogni tampone effettuato consente di raccogliere fino all’80 per cento in più di materiale biologico potenzialmente infetto da analizzare.
La Copan di Brescia, diciamolo subito, è un’azienda modello, autentico vanto del nostro Paese. Una di quelle imprese nate dalla tenace passione di un industriale locale, Giorgio Triva, tanto lungimirante da aver intuito già venti e passa anni fa le potenzialità di sviluppare la ricerca nel settore delle più avanzate analisi di laboratorio, sbaragliando poi, grazie al brevetto sui tamponi, ogni possibile competitor anche su scala internazionale.

IL FANTASMA DI HEILBRON
L’exploit arriva nel 2011 quando la tragica scomparsa della piccola Yara Gambirasio da Brembate di Sopra fa balzare la Val Seriana sui media di mezzo mondo e il pm di Bergamo Letizia Ruggeri decide di far “tamponare” mezza Lombardia (oltre 18.000 persone) per cercare l’inafferrabile “Ignoto 1”. Ruggeri affida alla Copan di Brescia l’incarico di fornire i tamponi, costati allo Stato italiano quasi tre milioni di euro.

Il pm del caso Yara, Letizia Ruggeri
In un articolo dell’epoca pubblicato sul periodico online linkiesta, per spiegare quanto risultino delicate simili analisi, si ricorda che negli anni novanta investigatori di mezza Europa erano all’inseguimento del serial killer soprannominato il “Fantasma di Heilbron”, il cui Dna fu repertato in diversi omicidi e rapine tra Austria, Francia e Germania. Ma «solo nel 2009 si scoprì che i tamponi di cotone usati per il prelievo del Dna dalle scene del crimine, prodotti tutti da una stessa ditta in cui erano impiegate donne dell’Europa dell’Est, non erano conformi agli standard e quindi il Dna delle lavoratrici, che si era sparso per tutta Europa veicolato da quei tamponi, combaciava con quello fantasma».
«La soluzione del mistero – chiariva a luglio 2017 il Corriere della Sera – è a un tratto lampante: dietro la donna senza volto, in realtà, si nasconde un caso di materiale contaminato… La polizia svolge nuovi test. In poche settimane il fantasma di Heilbronn ha finalmente un nome e un volto, ma non sono quelli di un serial killer. È l’ignara impiegata di una fabbrica di cotton fioc, che aveva contaminato con il suo Dna decine di tamponi, destinati alle polizie scientifiche di mezza Europa. “Avevano un doppio incarto, pensavamo che fossero la Mercedes dei tamponi”, dirà alla Bild un investigatore incredulo».

Ecco, quello che vale la pena di domandarci ora è se non possa essere accaduto involontariamente qualcosa di simile a Brescia, dove il colosso Copan presumibilmente intrattiene di regola scambi continui con la filiale cinese.
«La Copan – scrive lo scorso 2 marzo il Giornale di Brescia – con sedi a Shanghai (Cina), a Kobe (Giappone), a Murrieta (California) e Aguadilla (Porto Rico), già da fine gennaio si era impegnata nella consegna dei suoi tamponi in Oriente per contrastare appunto l’epidemia del coronavirus».


Lo stemma della Polizia cinese
A marzo l’azienda bresciana era peraltro già finita sui media per l’invio di una massiccia fornitura di tamponi agli Stati Uniti (partiti con voli militari dalla base Usa di Aviano), proprio mentre l’Italia e la Lombardia erano alla disperata ricerca di quei presidi sanitari. La Copan aveva tempestivamente risposto, spiegando che si trattava di una fornitura già da tempo commissionata e che ciò non avrebbe impedito il normale rifornimento alle aziende ospedaliere nostrane. Il che, a quanto risulta, si è puntualmente verificato, grazie anche ai ritmi contingentati del lavoro ed all’alta professionalità, sia del management che degli addetti. Con 110 milioni di fatturato, 450 addetti, di cui 300 donne, già prima che nel mondo divampasse la pandemia Copan produceva 250 milioni l’anno di tamponi per indagini patologiche forniti alle polizie di mezzo mondo. Comprese Scotland Yard, FBI e Jǐngchá, la Polizia della Repubblica Popolare Cinese.