lunedì 13 maggio 2019

L’arresto di Assange è una messa in guardia della storia


L’immagine di Julian Assange trascinato fuori dall’ambasciata dell’Ecuador a Londra è emblematica della nostra epoca. La forza contro il diritto. La brutalità contro la legge. Sei poliziotti che malmenano un giornalista malato, con gli occhi strizzati contro la prima luce naturale dopo circa sette anni.


Che questo scandalo sia avvenuto nel cuore di Londra, nel paese della Magna Charta, dovrebbe far vergognare e far arrabbiare tutti coloro che tengono alle società “democratiche”. Assange è un rifugiato politico protetto dal diritto internazionale, beneficiario di asilo in virtù di un accordo che la Gran Bretagna ha firmato. L’Organizzazione delle Nazioni Unite l’ha indicato chiaramente nella decisione giuridica presa dal suo Gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie.
 Ma al diavolo tutto questo. Lasciate entrare i teppisti. Diretta dai quasi-fascisti dell’amministrazione Trump, con la collaborazione dell’ecuatoriano Lenìn Moreno – un Giuda latinoamericano e un mentitore che cerca di nascondere lo stato moribondo del suo regime – l’élite britannica ha abbandonato il suo ultimo mito imperiale: quello dell’equità e della giustizia.

Immaginate Tony Blair trascinato fuori dalla sua casa georgiana da diversi milioni di sterline a Connaught Square, Londra, ammanettato, per essere poi spedito all’Aja.
Secondo l’esempio di Norimberga, il “crimine supremo” di Blair è la morte di un milione di iracheni.
Il crimine di Assange è il giornalismo: chiedere il conto ai rapaci, denunciare le loro menzogne e fornire alla gente del mondo intero i mezzi per agire con la verità.
Lo scioccante arresto di Assange è un avvertimento per tutti quelli che, come scriveva Oscar Wilde, “seminano i grani del malcontento [senza i quali ] non ci sarebbe progresso verso la civiltà”. L’avvertimento è esplicito ai giornalisti. Quello che è successo al fondatore e redattore capo di WikiLeaks può succedere ad un giornale, o a voi in uno studio televisivo, o a voi in una radio, o a voi che diffondete un podcast.
Il principale carnefice mediatico di Assange, The Guardian, collaboratore dello Stato segreto, ha mostrato il suo nervosismo questa settimana con un editoriale che raggiunge nuove vette di ipocrisia.
The Guardian ha sfruttato il lavoro di Assange e di WikiLeaks in quello che il suo precedente editore chiamava “il più grande scoop degli ultimi 30 anni”. Il giornale si ispira alle rivelazioni di WikiLeaks e attira lodi e fortuna. Senza versare un soldo a Julian Assange o a WikiLeaks, un libro promosso dal Guardian si trasforma in un film hollywwodiano molto lucroso (Il Quinto Potere, n.d.t.) . Gli autori del libro - Luke Harding e David Leigh –si sono rivoltati contro la loro fonte, lo hanno maltrattato e hanno divulgato la password che Assange aveva dato al giornale confidenzialmente, password concepita per proteggere un file digitale contenente dei cablogrammi degli ambasciatori degli Stati Uniti.

Quando Assange era intrappolato nell’ambasciata dell’Ecuador, Harding si è unito alla polizia che era all’esterno e si è rallegrato sul suo blog perché “Scotland Yard avrà l’ultima parola”. The Guardian ha poi pubblicato una serie di menzogne a proposito di Assange, in particolare un’affermazione falsa secondo la quale un gruppo di russi e l’uomo di Trump, Paul Manaford, avrebbero fatto visita ad Assange nell’ambasciata. Queste riunioni non hanno mai avuto luogo, era tutto falso.

Ora il tono è cambiato. “L’affaire Assange è una tela moralmente aggrovigliata” afferma il giornale. “Lui (Assange) crede nella pubblicazione di cose che non dovrebbero essere pubblicate … Ma ha sempre fatto luce su cose che non avrebbero mai dovuto essere nascoste”.
Queste “cose” sono la verità sull’aspetto mortifero con cui l’America porta avanti le sue guerre coloniali, le menzogne del Foreign Office britannico nel suo ignorare i diritti delle persone vulnerabili, come gli abitanti delle Isole Chagos, la denuncia di Hillary Clinton quale partigiana e beneficiaria dello yihaidismo in Medio Oriente, la descrizione dettagliata degli ambasciatori americani su come i governi della Siria e del Venezuela potrebbero essere rovesciati, e molto di più. Tutto questo è disponibile sul sito di WikiLeaks. 

The Guardian è nervoso e si capisce. La polizia segreta ha già fatto visita al giornale e ha chiesto e ottenuto la solita distruzione del disco fisso. Su questo il giornale non è alle prime armi. Nel 1983 una funzionaria del Foreign Office – Sarah Tisdall – divulgò dei documenti del governo britannico indicanti quando le armi nucleari da crociera americane sarebbero arrivate in Europa. Il Guardian fu coperto da elogi.

Quando un tribunale chiese di conoscere la fonte, invece di lasciare che il redattore capo finisse in prigione sulla base del fondamentale principio di protezione delle fonti, Tisdall fu tradita, perseguita e condannata a sei mesi di prigione.
Se Assange viene estradato negli Stati Uniti per aver pubblicato quello che The Guardian chiama “cose” veritiere, chi impedirà che la redattrice capo attuale, Katherine Viner, o l’ex redattore capo Alan Rusbridger, o il prolifico propagandista Luke Hardin lo seguano? E che i redattori capi del New York Time e del Washington Post, che hanno pubblicato anch’essi dei pezzi di verità provenienti da WikiLeaks, o il redattore capo di El Pais in Spagna, di Der Spiegel in Germania e del Sydney Morning Herald in Australia facciano la stessa fine? La lista è lunga.

David McCrow, primo avvocato del New York Times, ha scritto: “Penso che l’incriminazione di Assange costituirebbe un cattivo, cattivo, precedente per gli editori … per quello che ne so egli si trova in qualche modo nel ruolo classico di un editore e la legge farebbe molto male a distinguere il New York Times da WikiLeaks”.
Anche se i giornalisti che hanno pubblicato le rivelazioni di WikiLeaks non sono stati convocati davanti ad un Gran Jury americano, l’intimidazione di Julian Assange e di Chelsea Manning basterà. Il vero giornalismo è criminalizzato da dei teppisti, visti e conosciuti da tutti. La dissidenza è diventata un’indulgenza.
In Australia l’attuale governo filo-americano perseguisce due persone che hanno rivelato che gli spioni di Canberra avevano messo sotto sorveglianza le riunioni del gabinetto del nuovo governo di Timor Est, per privare questo piccolo paese della sua parte di risorse naturali in petrolio e gas del mare di Timor. Il loro processo si svolgerà in segreto. Il Primo Ministro australiano, Scott Morrison, è tristemente celebre per il suo ruolo nella costruzione di campi di concentramento per i rifugiati sulle isole di Nauru e Manus, nel Pacifico, dove i ragazzi si auto-mutilano e si suicidano. Nel 2014 Morrison ha proposto campi di detenzione di massa per 30.000 persone.
Il vero giornalismo è nemico di questi scandali. Dieci anni fa il ministero della Difesa di Londra ha pubblicato un documento segreto che descriveva le “principali minacce” all’ordine pubblico: i terroristi, le spie russe e i giornalisti d’inchiesta. Questi ultimi sono stati definiti la minaccia principale.

Il documento è arrivato a WikiLeaks, che naturalmente l’ha pubblicato. “Non avevamo scelta – mi ha detto Assange – “E’ molto semplice. Le persone hanno il diritto di sapere e il diritto di rimettere in discussione e di contestare il potere. Questa è la vera democrazia”.
E se Assange e Manning e gli altri nella loro scia – se ce ne sono altri – fossero ridotti al silenzio e “il diritto di sapere, di mettere in discussione e di contestare” sparisse?

Negli anni ’70 incontrai Leni Riefenstahl, amica di Hitler, i cui film contribuirono a gettare l’incantesimo nazista sulla Germania.

Lei mi disse che il messaggio dei suoi film, la propaganda, non dipendeva “da ordini venuti dall’alto”, ma da quello che lei definiva il “vuoto apatico” del pubblico. “Questo vuoto apatico si estendeva alla borghesia liberale e colta?” le chiesi. “Naturalmente – mi rispose – soprattutto l’intelligencia… Quando le persone non fanno più domande serie, diventano sottomesse e malleabili. Tutto può succedere”.
Ed ecco, è successo.
Il resto, avrebbe potuto aggiungere, è storia. 

John Pilger 


Fonte: http://johnpilger.com/articles/the-assange-arrest-is-a-warning-from-history
Data dell'articolo originale: 13/04/2019
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=25867 


venerdì 10 maggio 2019

URANIO IMPOVERITO / LA VITTIMA NUMERO 365


L’uranio impoverito continua a uccidere. Si tratta della vittima numero 365, una per ogni giorno dell’anno: è infatti morto il quarantacinquenne Daniele Nuzzi, calabrese.
Commenta l’‘Osservatorio militare’ che da anni monìtora una tragedia senza fine e che passa inosservata sui media di Palazzo: “dopo varie missioni in territori bombardati con uranio impoverito, rientrato in Italia, si era ammalato ma aveva dovuto ingaggiare una battaglia legale contro l’amministrazione militare per vedersi riconoscere la causa di servizio”.
Una seconda guerra, contro burocrazie e muri di gomma.
Ex parà del Reggimento Carabinieri Paracadutisti del Tuscania, Nuzzi aveva partecipato a numerose missioni estere. Quelle sempre “umanitarie” volute dai governi “democratici” che finiscono per uccidere i presunti “nemici” e gli stessi militari senza colpa. Aveva prestato servizio in Somalia e nella ex Jugoslavia, prima di rientrare in Italia, passando poi a lavorare nel comando provinciale di Catanzaro.
Secondo il legale dell’OsservatorioDomenico Leggiero, è necessario approvare in parlamento una normativa ad hoc, in grado di superare quegli ostacoli burocratici che intralciano le erogazioni degli indennizzi. Una legge, però “sempre più osteggiata – osserva Leggiero – dall’apparato militare. Le famiglie e gli ammalati sono stanchi. Basta prendere in giro o illudere persone che soffrono. La questione dell’uranio impoverito va affrontata e risolta. La legge c’è e va approvata, perché così non si può più andare avanti”.

mercoledì 8 maggio 2019

Magaldi: gialloverdi al 70% se osano sfidare il Deep State

Gioele Magaldi Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).
Non se ne esce mai, dal trappolone europeo? Certo, e non se ne uscirà fino a quando il cosiddetto Deep State sarà saldamente radicato in tutti i gangli vitali dello Stato. Burocrati e tecnocrati, servizi segreti pubblici e privati, banca centrale, uffici ministeriali, Quirinale. Ne ha parlato apertamente un parlamentare pentastellato, Pino Cabras, il 30 marzo a Londra. Eletto alla Camera in Sardegna lo scorso anno, Cabras – storico collaboratore di Giulietto Chiesa – ha partecipato al convegno “Un New Deal per l’Italia e per l’Europa”, promosso dal Movimento Roosevelt, soggetto meta-partitico fondato da Magaldi per rigenerare in senso democratico la politica italiana, stimolando i partiti a fare di più per recuperare la perduta sovranità popolare. Decisamente fuori programma l’esplicita ammissione di Cabras: a unire Lega e 5 Stelle, alleati ma sostanzialmente divisi su tutto, è l’impegno a resistere insieme alle “mostruose” pressioni del Deep State, che si è attivato per frenare il cambiamento promesso: dare più soldi agli italiani, ampliando il welfare e tagliando le tasse. Ed è intervenuto sin dal primo giorno, lo “Stato profondo”, inserendo le sue pedine nell’esecutivo Conte. Postilla: senza i “controllori di volo” (esempio, Tria al posto di Savona), il governo non sarebbe mai nato.
Di Maio e Salvini hanno accettato la sfida: meglio di niente, si sono detti, perché solo il governo gialloverde (benché azzoppato in partenza) avrebbe potuto almeno tentare di cambiare qualcosa, liberando l’Italia dall’incubo dell’austerity. Ce l’ha fatta? No, purtroppo. Si è visto bocciare persino la timida richiesta di portare il deficit al 2,4%, cioè ben al di sotto del famigerato tetto del 3% imposto da Maastricht (e che la Francia di Macron violerà, con l’alibi della protesta dei Gilet Gialli). Proprio i Gilet Jaunes, sostiene Magaldi, erano un regalo della massoneria progressista internazionale. Il piano: destabilizzare la Francia, sentinella dell’euro-rigore, proprio mentre l’Italia friggeva, per quel misero 2,4%, sulla graticola della Commissione Europea. Ma il governo Conte non ne ha saputo approfittare: raro caso di insipienza politica e di mancanza di coraggio, di assenza di Tsiprasvisione. Ora i pericoli sono dietro l’angolo: senza la necessaria benzina finanziaria per mantenere le promesse, i 5 Stelle sono già in picchiata nei sondaggi. Regge la Lega, ma solo per ora, grazie alla muscolarità (verbale) di Salvini. Però il tempo vola: in soli due anni, Matteo Renzi è passato dal 40% all’estinzione politica.
Si spera nelle europee, per erodere il potere dello “Stato profondo” neoliberista che utilizza come clava l’asse franco-tedesco? Pie illusioni: secondo Magaldi non cambierà proprio niente, fino a quando la bandiera della protesta sarà agitata dai sedicenti sovranisti, velleitari demagoghi delle piccole patrie. Per chi non se ne fosse accorto, impera la globalizzazione: tutto è fatalmente interconnesso. Nessun paese, da solo, può sperare di uscire indenne da una fiera diserzione. Parla per tutti la Grecia, che disse “no” all’euro-tagliola. Risultato: Tsipras fu intimidito e costretto a piegarsi, tradendo la volontà del popolo. Alla Grecia arrivarono aiuti finanziari, ma solo per soccorrere le banche tedesche e francesi esposte con Atene. Il paese è stato sventrato, svenduto e distrutto, riducendo i greci in povertà. E nessuno Stato europeo è intervenuto in suo soccorso. In Francia, era stato François Hollande a candidarsi come anti-Merkel, promettendo di allentare il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. Esito inglorioso: blandizie e minacce, compresi gli attentati terroristici targati Isis. In pochi mesi, Hollande ha ceduto su tutta la linea, rassegnandosi al ruolo di docile esecutore dell’ordoliberismo Ue.
Anni fa, proprio Magaldi sosteneva che solo l’Italia avrebbe potuto accendere la miccia del cambiamento. «L’Italia traccia le strade», diceva Rudolf Steiner, attribuendo al Belpaese un ruolo storico di battistrada. Una specie di destino: prima il “format” dell’Impero Romano, poi il Rinascimento e la democraziacomunale, le prime università, le prime banche. Italia caput mundi, nel bene e nel male: in fondo, Hitler si considerava allievo del maestro Mussolini. Proprio l’Italia primeggiò ancora una volta nel dopoguerra: fece il record mondiale di crescita, con il boom economico, anche se non tutti applaudivano. L’uomo-simbolo di quegli anni ruggenti, Enrico Mattei, fu disintegrato a bordo del suo aereo. Oggi, dopo mezzo secolo, l’Europa è ancora una volta alle prese con il “problema” Italia, grazie a un governo teoricamente non-allineato a Bruxelles. Esecutivo capace di firmare un memorandum d’intesa commerciale con la Cina, che irrita pericolosamente gli Usa e manda su tutte le furie Parigi Paul Krugmane Berlino, ovvero i due maggiori nazionalismi anti-europeisti su cui si regge l’infame Disunione Europea, quella che ha lasciato morire impunemente i bambini greci, negli ospedali rimasti senza medicine.
Non bastano più, dice Magaldi, le sole analisi degli economisti democratici che in questi anni hanno smascherato tutte le bugie del neoliberismo. La prima: tagliare il debito pubblico risana l’economia. Falso: lo dimostra la scienza economica, da Keynes in poi, e lo confermano Premi Nobel come Krugman e Stiglitz. Ovvero: il deficit strategico – a patto che sia massiccio, e investito con oculatezza – può valere anche il 400%, in termini di Pil. Tradotto: oggi spendo dieci, e domani incasserò quattro volte tanto (lavoro, salari, consumi, e infine anche tasse). Beninteso: lo sanno tutti, a cominciare da quelli che fingono di non saperlo. Come Mario Draghi, che fu allievo del maggior economista keynesiano europeo – italiano, tanto per cambiare: il professor Federico Caffè. Tesi di laurea del giovane Draghi: l’insostenibilità di una moneta unica europea. Farebbe ridere, se non ci fosse da piangere. Specie se si calcola che Draghi fu accolto a bordo del Britannia, all’epoca della grande spartizione della Penisola, alla vigilia delle privatizzazioni degli anni ‘90 che hanno sabotato la nostra florida economia. Lo stesso Draghi ha lasciato il segno anche in Grecia: prima come manager della Goldman Sachs, la banca-killer che gonfiava i bilanci di Atene, e poi – a disastro compiuto – come inflessibile censore della Bce, in seno alla spietata Troika europea.
Ancora lui, Mario Draghi, è l’uomo a cui risponde, di fatto, il governatore di Bankitalia. E proprio da Ignazio Visco, il presidente Mattarella – con una mossa senza precedenti – spedì l’allora premier incaricato, Conte, a prendere appunti su come non attuarlo affatto, il cambiamento appena promesso agli elettori. Pino Cabras lo chiama “Stato profondo”, e difende la strategia di Di Maio e Salvini: accettare la logica di una guerra di logoramento, dice Cabras, è l’unica soluzione praticabile. Non la pensa così Gioele Magaldi: a suo parere, è una tattica perdente. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, ridisegna la mappa del Deep State, presentandolo come interamente massonico. Un potere a due facce: quella progressista (da Roosevelt ai Kennedy, fino allo svedese Olof Palme) spinse avanti la modernità dei diritti sociali in senso democratico, nei decenni del grande benessere diffuso. L’altra faccia, oligarchica – Merkel e Macron, Prodi e D’Alema, lo stesso Draghi – ha Olof Palmechiuso i rubinetti della finanza pubblica, inaugurando la globalizzazione del rigore e quindi l’impoverimento generale della popolazione occidentale, fino alla quasi-sparizione della classe media (che infatti oggi in Italia vota Salvini e Di Maio).
Contro questo regime, insiste Magaldi, non valgono più né le pregevoli rivelazioni dei tanti economisti onesti, né i recenti tatticismi dei gialloverdi. Serve una rivoluzione, a viso aperto. Un paese che dica: “Adesso sforiamo il tetto di Maastricht. E se non vi va bene, sospendiamo la vigenza dei trattati europei”. Addirittura? Certo, altra via non esiste. Se ci si piega al racket, l’estorsione continua all’infinito. Anche in politica: la molla su cui fa leva il prevaricatore è sempre la stessa, la paura. Se invece si smette di avere paura, tutto il castello crolla. Perché quel ricatto è basato su un sortilegio psicologico, come quello che rende misteriosamente tenebroso l’invisibile Mago di Oz, in apparenza invincibile: in realtà è soltanto una bolla, che può dissolversi in un attimo. E’ già successo, nella storia. Sotto la sferza della Grande Depressione, la destra economica consigliò a Roosevelt di tagliare il debito – pena, l’apocalisse. Ma il presidente, ispirato da Keynes, fece l’esatto contrario: espansione smisurata del deficit. Risultato: l’America, che era alle prese con l’incubo quotidiano della fame, divenne una superpotenza. Non è che siano cambiate, le regole: il sistema è sempre quello capitalista. Non solo: è diventato universale, incorporando anche Russia e Cina (che infatti, così come gli Usa e il Giappone, non hanno nessuna paura di fare super-deficit, sapendo che è il solo modo per alimentare il mercato interno dei consumi, e quindi l’occupazione).
Il Mago di Oz ora si chiama Unione Europea, si chiama Eurozona. Una vergogna mondiale, senza più democrazia: comanda la Bce, insieme alla Commissione formata da tecnocrati non-eletti. Non c’è una vera Costituzione, e il Parlamento Europeo non può eleggere il governo europeo. Siamo precipitati nella barbarie di un neo-feudalesimo, una specie di Sacro Romano Impero. D’accordo, ma per volere di chi? Magaldi non ha esitazioni nell’indicare i responsabili: massoni reazionari. Militano nelle Ur-Lodges neoaristocratiche. Sono strutture segrete e trasversali, spregiudicate e apolidi, senz’altra patria che il denaro. Hanno deformato la stessa geopolitica: quando parliamo di Russia, Europa, Cina e Stati Uniti, dovremmo invece saper distinguere tra élite oligarchiche ed élite a vocazione democratica. Esistono anche quelle, infatti: sono di segno progressista. Negli ultimi decenni sono state costrette a cedere il passo alla plutocrazia neoliberista, ma adesso stanno rialzando la testa. Lo stesso Il Mago di OzMagaldi ammette di agire d’intelligenza con alcune di queste strutture, come la superloggia Thomas Paine. Problema pratico, innanzitutto: se è stata la supermassoneria a creare il problema, non può che essere la stessa supermassoneria (lato B, progressista) a contribuire a risolverlo.
Magaldi non demonizza le Ur-Lodges, non ne fa una speculazione complottistica. Se la massoneria sa di aver fondato la modernità – Stato di diritto, laicità delle leggi, suffragio universale democratico – è umano che pensi (sbagliando) di poter fare quello che vuole, della sua “creatura”. La distorsione è cominciata negli anni ‘70, con il saggio sulla “Crisi della democrazia” commissionato dalla Trilaterale, potente entità paramassonica. La tesi: troppa democrazia fa male. Dove siamo arrivati, oggi? Lo si è visto: un certo signor Pierre Moscovici, non votato da nessuno, ha il potere di bocciare il bilancio del governo italiano regolarmente eletto. Lo si può subire in silenzio, un affronto simile? Nossignore: la verità va gridata. Lo stesso Moscovici sa benissimo che un deficit robusto farebbe volare l’economia. Una volta, lo sapeva anche la sinistra (che oggi tace). Lega e 5 Stelle? Si limitano a brontolare, ma poi ingoiano il rospo. Peggio: sparano a vanvera contro la massoneria, fingendo di non sapere che sono proprio i supermassoni oligarchici a ostacolare il loro governo. Cosa aspettano a vuotare il sacco?
Magaldi è esplicito: le Ur-Lodges progressiste sono pronte ad aiutarli, se smetteranno di essere ipocriti sulla massoneria, come se non sapessero che persino il governo gialloverde pullula di massoni occulti, non dichiarati. Sperano nelle europee, leghisti e grillini? Errore grave: nessuno verrà in aiuto dell’Italia, se non sarà il nostro paese – per primo – ad alzare la testa. Come? Nell’unico modo possibile: una rivoluzione gandhiana, basata sull’obiezione ideologica. Può svanire in un attimo, la grande paura del Mago di Oz, se solo qualcuno avrà l’elementare coraggio democratico che oggi ancora manca, ai gialloverdi. Una rivoluzione potrebbe spazzarli via in un amen, i mammasantissima del peggior Deep State. Restano invece al loro posto, i boiardi dello “Stato profondo”, proprio perché a proteggerli – prima di ogni altra cosa – è proprio la nostra stessa paura. Per Magaldi, scontiamo anche un vuoto culturale: da riempire, per la precisione, ricorrendo al socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli. Una corrente di pensiero illuminante ma rimasta in ombra, schiacciata dal fascismo e dallo stesso socialismo massimalista, prima ancora che dal comunismo. Poi venne l’atroce neoliberismo, nelle due versioni: quella sfrontata, della D'Alema e Blairdestra economica reaganiana, e quella – più ambigua nella forma ma identica della sostanza – del “terzismo” di Anthony Giddens adottato dall’ex-sinistra occidentale, da Blair fino a D’Alema, grandi protagonisti dell’attuale post-democrazia.
Il succo non cambia: Stato minimo, il privato ha sempre ragione. Nei fatti, il neoliberismo è un imbroglio: santifica l’impresa, ma a spese dello Stato. E quando scoppia Wall Street, è il bilancio pubblico a tenere in piedi le banche-canaglia. Turbo-globalizzazione mercantile, e addio diritti. Delocalizzazioni, privatizzazioni. Parola d’ordine, per i non privilegiati: arrangiarsi. Dogma assoluto: demolire l’impresa pubblica, che era il cemento armato del boom italiano. In Svezia, Olof Palme impegnò lo Stato nel salvare le aziende traballanti, a due condizioni: management statale, e lavoratori coinvolti come azionisti (con tanto di dividendi, a fine anno). Fu ucciso a Stoccolma nel 1986, all’uscita di un cinema. Tuttora sconosciuto il killer, ma non il mandante: possiamo chiamarlo Deep State. Con Palme, questa Europa cialtrona non sarebbe mai potuta nascere. Al leader svedese, il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano il 3 maggio. Sul podio altri due giganti, lo stesso Rosselli e l’africano Thomas Sankara, anch’essi assassinati. Non difettavano di coraggio: sapevano di dover combattere, sfidando il potere ostile a viso aperto. E’ quello che dovrebbe fare anche l’Italia, ribadisce Magaldi. Sapendo che, da sole, le élite possono fare poco. Se però si sveglia il popolo, allora non c’è Deep State che tenga. E’ così che funzionano, le rivoluzioni che mandano avanti, da sempre, la storia dell’umanità.
(Le riflessioni di Gioele Magaldi sono tratte dalla diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi Racconta” del 1° aprile 2019, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”).

lunedì 6 maggio 2019

Geopolitica del petrolio al tempo di Trump di Thierry Meyssan


Gli Stati Uniti sono diventati i primi produttori mondiali di idrocarburi. Già ora sfruttano la posizione dominante esclusivamente per massimizzare i profitti, senza esitare a eliminare i grandi produttori rivali, sia pure a prezzo di precipitare intere popolazioni nella miseria. L’accesso al petrolio fu in passato, con Carter, Reagan e Bush senior, un bisogno vitale dell’economia; con Clinton fu un mercato da manovrare; con Bush junior e Obama una risorsa in via di esaurimento di cui controllare il rubinetto. Con Trump gli idrocarburi sono tornati a essere l’oro nero. Thierry Meyssan ripercorre le evoluzioni di questo sanguinoso mercato.


L’economia dipende innanzitutto dall’energia di cui dispone: un bisogno che da sempre è stato una delle principali cause di guerra. Un tempo si trattava di fare schiavi gli esseri umani per sfruttarli nei campi; nel XIX secolo di appropriarsi del carbone per alimentare le macchine; oggi di impadronirsi degli idrocarburi, ossia di petrolio e gas.
Per nascondere a sé stessi questa logica, gli uomini da sempre s’inventano buonissime ragioni per giustificare le proprie azioni. Così, noi pensiamo che:
-  l’Iran venga sanzionato per il suo programma militare nucleare, sebbene l’abbia bloccato nel 1988;
-  gli impianti e i beni della PDVSA [compagnia petrolifera statale vnezuelana, ndt] siano stati sequestrati per trasferirli dal dittatore Maduro a Juan Guaidò e compari, sebbene il primo sia il presidente del Venezuela costituzionalmente eletto e il secondo un usurpatore;
-  gli Stati Uniti mantengano le loro truppe in Siria per sostenere gli alleati kurdi di fronte al dittatore al-Assad, sebbene questi kurdi siano dei mercenari che non rappresentano il loro popolo, mentre al-Assad è stato democraticamente eletto.
Sono narrazioni che non corrispondono in alcun modo alla realtà. Vogliamo credervi pensando di trarne profitto.

Il mercato mondiale

Gli idrocarburi sono il primo mercato mondiale. Sopravanza quello alimentare, quello delle armi, quelli dei farmaci e delle droghe. Prima di diventare, negli anni Sessanta, riserva di caccia degli Stati, questo mercato era gestito da società private. Con il progresso economico, sono via via entrati nuovi attori e il mercato è diventato più imprevedibile. Dal crollo dell’URSS fino al ritorno della Russia, è diventato anche molto più speculativo e subisce oscillazioni da 1 a 4 nei prezzi di vendita.
Non si può anche non constatare che numerosi giacimenti, dopo essere stati a lungo sfruttati, si esauriscono. Alla fine degli anni Sessanta, i Rockefeller e il Club di Roma hanno reso popolare la teoria secondo cui gli idrocarburi, essendo energie fossili, sono limitati. Orbene, a smentita di questo assunto, l’origine degli idrocarburi è ignota. L’ipotesi è che probabilmente siano fossili, ma potrebbero anche non esserlo. Del resto, anche se gli idrocarburi fossero rinnovabili, questo non impedirebbe loro di esaurirsi per il super-sfruttamento (teoria del picco di Hubert). In particolare, il Club di Roma ha studiato il problema partendo da un’idea aprioristica malthusiana: doveva dimostrare che la popolazione mondiale deve essere limitata perché la Terra ha risorse limitate. L’assunto secondo cui il petrolio si esaurisce è solo un argomento per giustificare la volontà dei Rockefeller di limitare lo sviluppo demografico delle popolazioni povere. In mezzo secolo e per cinque volte di seguito si è creduto che il petrolio si sarebbe esaurito negli anni immediatamente a venire. Invece oggi è dimostrato che esistono riserve sufficienti per almeno un altro secolo.
I costi molto variabili dello sfruttamento (una gradazione che va da 1 in Arabia Saudita a 15 negli Stati Uniti), i progressi tecnici, le considerevoli oscillazioni dei prezzi, nonché il dibattito ideologico hanno a più riprese reso incerto il rendimento degli investimenti. Ora, tenuto conto dei tempi tecnici, ogni interruzione degli investimenti nella ricerca, nello sfruttamento e nel trasporto causa una penuria di prodotti nei successivi cinque anni. È quindi un mercato particolarmente caotico.

La politica mondiale dell’energia

La creazione nel 1960 dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEP), per iniziativa del venezuelano Juan Pablo Pérez Alfonzo, ha progressivamente trasferito il potere di fissare i prezzi dalle compagnie petrolifere agli Stati esportatori. Questo passaggio si è manifestato durante la guerra di Egitto e Siria contro Israele del 1973, chiamata in Occidente “guerra del Kippur”, e la crisi petrolifera mondiale che ne seguì.
Gli Stati Uniti, che erano la prima potenza mondiale, hanno adottato nel tempo differenti politiche riguardo agli idrocarburi.
-  Il presidente Jimmy Carter ha ritenuto che per il Paese, che aveva assoluto bisogno di questa fonte energetica, l’accesso al petrolio del Medio Oriente fosse una questione di «sicurezza nazionale». Arabi e persiani non potevano rifiutarsi di vendergli l’oro nero e nemmeno alzarne smodatamente il prezzo.
-  Il presidente Donald Reagan creò il Comando degli Stati Uniti per il Medio Oriente (strutturato secondo la conoscenza dell’epoca dei giacimenti petroliferi), il CentCom. Per applicare la politica del suo predecessore negoziò basi militari permanenti e cominciò a inviare truppe nella regione.
-  Il presidente George Bush senior prese la testa di una coalizione, pressoché universale, e schiacciò l’Iraq, che aveva pensato di poter scegliersi gli sbocchi delle esportazioni e tentato di recuperare i pozzi del Kuwait, sottrattigli dai britannici.
-  Il presidente Bill Clinton e il suo vicepresidente Al Gore ereditarono un mondo unipolare, senza l’URSS. Delinearono una carta di corridoi con cui solcare il mondo (gasdotti, autostrade, ferrovie, linee internet) e di operazioni militari per costruirli e renderli sicuri. Un esempio: la guerra contro la Jugoslavia, necessaria per la costruzione dell’8° corridoio.
-  Il presidente George Bush iunior e il suo vicepresidente Dick Cheney, convinti che gli idrocarburi si sarebbero presto esauriti, lanciarono una serie di guerre non già per impadronirsi dell’oro nero, bensì per controllarne la produzione e il mercato. Ritornando alla teoria malthusiana della fine imminente delle risorse energetiche, volevano scegliere i Paesi che avrebbero avuto diritto di accedervi per far vivere le proprie popolazioni.
-  Il presidente Barack Obama colse l’opportunità del gas e del petrolio di scisto e decise di favorirne l’estrazione. Sperava così di sottrarre gli Stati Uniti alla maledizione malthusiana.
-  Il presidente Donald Trump arrivò al potere quando gli USA erano diventati il primo produttore mondiale di idrocarburi. Decise quindi di sconvolgerne la strategia.

La politica di Donald Trump

Quando il presidente Trump designò alla direzione della CIA il rappresentante del Kansas, Mike Pompeo, interpretammo questa inattesa nomina in ragione della difficoltà del presidente di trovare alleati nel Partito Repubblicano, che aveva appena preso d’assalto. Trascurammo che Pompeo, dal 2006 al 2010, fu a capo della fabbrica di componenti per idrocarburi Sentry International. Sapeva come funziona il mercato e ne conosceva personalmente i principali protagonisti a livello mondiale. Nello stesso momento il presidente Trump nominò segretario di Stato Rex Tillerson, amministratore delegato di una delle principali società di idrocarburi, Exxon-Mobil. Avremmo dovuto capire che la politica energetica sarebbe stata il cuore dell’amministrazione Trump.
È evidentemente impossibile tracciare un bilancio dell’azione di Pompeo a capo della CIA. Tuttavia si può pensare che gli obiettivi di allora non fossero lontani da quelli di oggi. Ebbene, si dà il caso che ora li abbia rivelati.
Una società di consulenza, creata dallo specialista incontestato del mercato degli idrocarburi Daniel Yergin, organizza ogni anno un incontro internazionale sull’evoluzione della situazione. il Congresso 2019 (CERAweek, tenutosi a Houston, Texas, dal 9 al 13 marzo scorsi) è stato la più vasta riunione internazionale sul tema della storia. Vi hanno partecipato i dirigenti esecutivi delle principali società di 78 Paesi. Il clou dello spettacolo è stato l’intervento del segretario di Stato Mike Pompeo. Tutti i partecipanti erano stati avvertiti dell’importanza del discorso di Pompeo, sicché è stato l’unico momento in cui l’immensa sala era stracolma.
Pompeo, dopo aver salutato gli ex colleghi, si è felicitato delle incredibili performance dell’industria petrolifera del Paese che, in sei anni, è diventata la prima produttrice al mondo di idrocarburi, grazie alle nuove tecniche di estrazione dallo scisto. Ha annunciato di aver istituito al dipartimento di Stato un ufficio speciale per la gestione delle risorse energetiche. A lui dovranno d’ora innanzi far capo i dirigenti delle società USA del settore: suo compito è aiutarle a espugnare mercati esteri, esse in cambio dovranno aiutare a portare avanti la politica energetica del Paese.
Politica che consisterà nel produrre il più possibile negli Stati Uniti, nonché a prosciugare parte dell’offerta mondiale per equilibrare il mercato. Solo in questo modo gli USA riusciranno a vendere gas e petrolio di scisto, la cui estrazione è particolarmente onerosa.
La dottrina Pompeo dice che non conviene ricondurre la produzione mondiale a livello della domanda per mezzo delle quote di produzione, come invece fa da due anni l’OPEP+, bensì chiudendo il mercato ad alcuni grandi esportatori: l’Iran, il Venezuela e la Siria (le cui gigantesche riserve sono state scoperte solo recentemente e non sono ancora sfruttate). Il progetto del NOPEC (No Oil Producing and Exporting Cartels Act) dovrebbe essere rispolverato. Questa proposta di legge, di cui in due decenni sono state depositate al Congresso molte varianti, mira a sopprimere l’immunità sovrana che i Paesi dell’OPEP reclamano per costituirsi in cartello, nonostante le leggi antitrust USA. Si potrebbero così perseguire nei tribunali statunitensi tutte le società degli Stati membri dell’OPEP+, benché nazionalizzate, per aver approfittato della posizione dominante e per aver concorso così al rialzo dei prezzi.
Si dà il caso che a fine 2016 la Russia, per far risalire i prezzi, si è associata all’OPEP e ha accettato di abbassare la produzione. Ciò è ancora più indispensabile per Mosca dal momento che la sua economia risente delle sanzioni occidentali e che le esportazioni di idrocarburi rappresentano, insieme alle armi, le principali fonti di entrata dell’export. Di conseguenza, nella situazione attuale gli interessi di Mosca e Washington non si confondono però coincidono: non inondare il mercato. Per questa ragione la Russia non fa niente per aiutare l’Iran a esportare petrolio, così come non sfrutta i giacimenti in Siria, di cui le società russe hanno acquisito il monopolio. È probabile che sotto questo aspetto non aiuterà nemmeno il Venezuela. Così il trasferimento a Mosca della sede europea della PDVSA è stato rinviato.
La Russia, che ha salvato la Siria dai mercenari jihadisti della NATO, non ha mai preso l’impegno di andare oltre. Così non muove un dito di fronte all’affossamento di questo Paese, un tempo prospero. In Siria non c’è ancora carestia, come nello Yemen, ma la strada imboccata è inesorabilmente questa.
Gli Stati Uniti però vogliono non solo stabilizzare l’offerta mondiale, ma anche determinarne i flussi; da qui le pressioni di Washington su Unione Europea e sui singoli Stati membri perché non portino a compimento il gasdotto North Stream 2. Washington vuole che l’UE si svincoli dalla dipendenza dagli idrocarburi russi. Se gli sforzi USA fossero coronati da successo, la Russia sposterebbe il flusso verso la Cina, che però non pagherebbe lo stesso prezzo.
Sin d’ora gli Stati Uniti, per soddisfare i bisogni dell’Unione Europea, vi fanno costruire il più celermente possibile porti metanieri, in grado di ricevere il loro gas di scisto. Da parte sua la Russia accelera invece la costruzione del gasdotto Turkish Stream, ossia un’altra via per raggiungere l’Unione europea.
Inoltre, il dipartimento del Tesoro USA blocca tutti i mezzi di trasporto di petrolio iraniano e venezuelano o verso la Siria. I dati in suo possesso dicono che la CIA ha iniziato a osservare in dettaglio questo commercio dall’elezione di Donald Trump, sin dal periodo di transizione, il che conferma la centralità dell’energia nella politica del presidente. Dal momento che la Siria non è oggi in grado di sfruttare da sé le proprie riserve e che la Russia soprassiede, l’atteggiamento della Casa Bianca verso questo Paese è differente: vuole impedirne la ricostruzione e rendere impossibile la vita al suo popolo. La CIA sta svolgendo un’intensa opera di sabotaggio contro ogni approvvigionamento energetico. Per esempio, la maggior parte della popolazione non ha più gas per riscaldarsi e cucinare. La CIA ha fatto anche di peggio: a febbraio una petroliera turca che trasportava un prodotto iraniano verso la Siria è stata sabotata al largo di Laodicea. È esplosa, l’equipaggio è morto e si è diffusa una marea nera di cui nessun media occidentale ha parlato.
Dato che lo Hezbollah partecipa al governo libanese e tutela al tempo stesso gli interessi iraniani, l’amministrazione USA ha esteso a Beirut il divieto di esportare petrolio. Non solo: Pompeo cerca anche d’imporre una nuova spartizione delle acque territoriali per far passare le riserve petrolifere libanesi sotto la sovranità israeliana.
Lo stesso accade con il Venezuela, che fornisce petrolio a Cuba in cambio dell’assistenza di esperti militari e dell’opera dei medici cubani. Il dipartimento di Stato cerca di sanzionare qualunque scambio fra i due Paesi, tanto più che gli esperti militari cubani sono considerati responsabili del sostegno dell’esercito venezuelano al presidente Maduro.

Gli sviluppi futuri

Per il momento la politica di Trump può avere successo solo diminuendo la domanda interna. Siccome gli idrocarburi sono usati soprattutto per i mezzi di trasporto, ecco allora fiorire progetti di auto elettriche. Consumare petrolio per produrre elettricità costa agli Stati Uniti molto meno che versarlo direttamente nei motori delle autovetture. Senza contare che sul territorio statunitense l’elettricità può essere prodotta da fonti diverse, a basso costo e a prezzo stabile.
Si noti che lo sviluppo di vetture elettriche non è affatto in rapporto con l’ideologia che vuole diminuire la produzione di CO2 per abbassare la temperatura della Terra: la produzione di batterie può essa stessa emettere molto CO2, mentre l’elettricità può essere molto più responsabile dell’inquinamento da CO2 di quanto lo sia il petrolio quando viene prodotta, come in Germania e in Cina, con il carbone.
Del resto, il consumo di petrolio evolve. Su scala mondiale non è più prioritariamente destinato ai trasporti, bensì alla fabbricazione della plastica.
Gli Stati Uniti consentiranno a Iran, Venezuela e Siria di esportare idrocarburi soltanto a partire dal 2023 o 2024, ossia dal momento in cui, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), la produzione statunitense da scisto comincerà ad abbassarsi rapidamente. Ancora una volta la situazione geopolitica ne sarà sconvolta.

sabato 4 maggio 2019

[Reseau Voltaire] Les principaux titres de la semaine 3 mag 2019

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