Da più parti in questi mesi vi sono stati coloro che hanno parlato del protocollo svedese come un modello unico e vincente nel contrastare la diffusione del COVID -19, in opposizione con chi ha ripetutamente indicato la Svezia e la sua iniziale mancanza di restrizioni come un esempio da non imitare assolutamente. I vicini e goliardicamente rivali norvegesi addirittura, in alcuni casi estremi, se la ridono nel vedere gli Svedesi in difficoltà e nel dubbio tengono tuttora chiusi i confini, tranne che per alcune zone recentemente dichiarate “verdi”. Ma esattamente di cosa si parla quando ci si riferisce alla cosiddetta “strategia svedese”?
La Svezia è stata interessata dalla pandemia relativamente in ritardo rispetto ad altri paesi europei, con un primo caso confermato il 31 gennaio (una donna di ritorno dalla provincia cinese di Wuhan), ed un secondo caso quasi un mese dopo, il 27 febbraio (un uomo di ritorno dal nord Italia). Tra la fine di febbraio ed i primi di marzo si calcola che circa un milione di svedesi abbia viaggiato in paesi in cui l’epidemia si era già ampiamente diffusa esponendosi al rischio del contagio e riportandosi realisticamente il virus a casa, in particolare da Gran Bretagna, USA, Francia ed Olanda.