lunedì 27 aprile 2020

Trump e il suo ‘riposizionamento’ delle truppe: abbiate almeno il coraggio di chiamarla ‘ritirata’


Pochi riescono dimenticare le parole di una collaboratrice laburista di Tony Blair, poche ore dopo la distruzione del World Trade Center l’11 settembre. “Oggi è il giorno buono per liberarci di tutto ciò che vogliamo seppellire, aveva scritto Jo Moore.
Donald Trump, ovviamente, la pensa allo stesso modo.
Mentre la pandemia di coronavirus imperversa in lungo e in largo per l’America, ha ordinato alle truppe statunitensi di abbandonare tre importanti basi militari in Iraq, per risparmiare loro ulteriori attacchi da parte dei combattenti iracheni sciiti sostenuti dall’Iran.
Trump si è sempre vantato della necessità di un ripiegamento, ma questa è una ritirata bella e buona. La versione ufficiale, secondo la quale gli Stati Uniti stanno “riposizionando [sic] le truppe da alcune basi minori,” è quasi altrettanto ridicola quanto quella dell’abbandono definitivo di Beirut da parte degli Stati Uniti nel 1984, dopo che, per mesi, erano rimasti sotto il fuoco delle milizie sciite. Poco meno di quarant’anni fa, gli Americani avevano detto che stavano “riposizionando le navi in mare aperto.”
Come il “riposizionamento” di Napoleone da Mosca. O il “riposizionamento” britannico da Dunkerque. Ora le forze statunitensi si “riposizioneranno” dalle loro basi di al-Qaim, Qayyarah e dalla base K-1 vicino a Kirkuk, in Iraq. Come nel “riposizionamento” di George Washington da Brooklyn Heights nel 1776, suppongo, o nel “riposizionamento” britannico da Kabul nel 1842.
Nel 1984, il presidente Reagan aveva detto che gli Americani non avrebbero “tagliato la corda” dal Libano. Ma lo avevano fatto. Nel gennaio di quest’anno, Trump aveva detto, parlando dell’Iraq: “Se partiamo, ciò significherebbe che l’Iran avrebbe un punto d’appoggio molto più grande [sic].” Stava cercando di minimizzare una lettera scritta dal Generale di Brigata del Corpo dei Marines, William Seely, che aveva appena detto la verità sulla strategia degli Stati Uniti al vicecomandante del Comando iracheno per le operazioni congiunte, il maggiore generale Abdul Amir. La coalizione guidata dagli Stati Uniti, aveva scritto Seely alla sua controparte irachena, “riposizionerà le truppe nel corso dei prossimi giorni e settimane per prepararsi all’operazione successiva.”
Oops! I generali non dovrebbero dire sempre la verità. Seely, ovviamente un tipo onesto, non aveva usato perifrasi. Ma il Pentagono l’aveva fatto. Il capo dello Stato Maggiore Congiunto, Mark Milley, aveva definito la lettera di Seely un “errore.” E’, aveva detto, “mal formulata” e “implica un ritiro,” cosa che, secondo lui, non stava accadendo. Ora sappiamo che sta davvero accadendo.
Un ritiro è esattamente ciò che intendeva Seely. Lungi dall’essere mal formulata, la lettera di Seely era fin troppo precisa. Ma questa, immagino, è la vita del soldato sotto Trump. Di’ la verità, e il bugiardo alla Casa Bianca ti farà schiaffeggiare, prima ancora che tu possa dimostrare di essere sempre stato onesto.
Il ritiro da al-Qaim, come si vede in un filmato francese, è un’operazione abbastaza caotica, con i soldati americani che ripiegano tende impolverate accanto a vagoni merci delle ferrovie irachene dimenticati da tempo e deragliati durante i combattimenti di quindici anni fa. Qui, appena tre anni fa, le truppe statunitensi (e gli Iracheni schierati con loro) combattevano contro l’apocalittica ISIS. All’esterno, le forze di mobilitazione popolari sciite (PMF) (i cui alleati, Kataib Hezbollah e le brigate al-Totof, si erano battuti contro gli stessi Jihadisti), si coordinavano, tramite l’esercito iracheno, con gli Americani nella loro lotta contro l’Isis.
Erano ovviamente supportati dal Corpo di Guardia Rivoluzionaria Iraniana. Un reporter del canale della BBC che trasmette in persiano aveva visitato al-Qaim 15 mesi fa e aveva notato come la campagna circostante fosse decorata con le bandiere del PMF.
C’erano stati attacchi occasionali contro gli Americani, e poi, follia delle follie da parte dell’esercito americano in Iraq (perchè il suo compito era quello di addestrare l’esercito iracheno, che ora comprendeva anche il PMF), Trump, il grande comandante in capo che non si sarebbe mai ritirato dall’Iraq, aveva deciso di assassinare il comandante iraniano Qassem Soleimani e, cosa ancora più stupida, di spazzar via, insieme a Soleimani, il vice capo del PMF, Abu Mahdi al-Muhandis.
Così il Pentagono aveva ucciso, o assassinato, visto che i droni sono ora i liquidatori preferiti quando viene decretata la morte dei nemici dell’America, il leader della più importante milizia dell’esercito iracheno, i cui uomini, in quel momento, circondavano le basi statunitensi.
Tutti gli attacchi successivi contro gli Americani devono essere valutati in base alla morte di questi due uomini. Era stato ucciso un mercenario americano. Poi due soldati americani ed uno britannico alla base di Taji (non ancora nella lista dei ritiri). Gli Americani avevano quindi lanciato attacchi aerei contro Kataib Hezbollah, uccidendo più di una ventina dei loro uomini. Un attacco missilistico aveva poi ferito gravemente 34 Americani (tutti avevano subito “traumi cranici,” secondo il Pentagono) ma Trump aveva assicurato che nessun soldato era rimasto ferito. “Ho sentito dire che avevano mal di testa,” aveva osservato in seguito. Se un presidente degli Stati Uniti riesce ad ignorare così allegramente le ferite dei suoi stessi uomini, è ovvio che possa chiudere altrettanto facilmente una o due basi. O magari anche tre.
Per aggiungere ulteriori ferite, e morte, all’insulto, gli Americani avevano poi attaccato l’aeroporto di Kerbala, in costruzione per i futuri pellegrini in visita al santuario sciita [della città] e ad altri luoghi in tutto l’Iraq, uccidendo tre soldati governativi della 19a Divisione Commando dell’esercito iracheno, due poliziotti ed un civile. Gli stessi curatori del santuario, sacro agli imam Hussein e Abbas, avevano condannato l’attacco e il ministero degli esteri iracheno aveva presentato una denuncia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Gli Americani avevano affermato che l’aereoporto era un deposito di armi della milizia sciita.
Mike Pompeo, il Segretario di Stato, aveva minacciato che “l’America non avrebbe tollerato altri attacchi,” ma, a quanto pare, sono state le milizie sciite a non aver tollerato ulteriori attacchi. Loro non si “riposizionano.” Sono gli Americani a farlo. E, quando un funzionario del dipartimento della difesa degli Stati Uniti aveva detto alla BBC che la vicinanza alla base di al-Qaim della principale milizia sciita era stato “un fattore chiave nella decisione di spostare le forze altrove,” avevamo saputo che gli Americani avevano perso.
Ma, nel mondo capovolto di Trumplandia, questa è un’altra vittoria. Come l’accordo Usa-Talebani di questo mese per il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, 8.500 di loro entro 135 giorni, in cambio di una promessa da parte dei loro nemici guerriglieri da 19 anni di tenere al-Qaeda, l’Isis e gli altri Jihadisti fuori dal paese. Gli Americani, ci viene detto, avranno ancora forze sufficienti per condurre “operazioni antiterrorismo” contro questi ultimi. Nel linguaggio del Pentagono, una lingua da sempre separata dalla vita reale (una cosa comune nel cimitero degli imperi): “USFOR-A [US Forces Afghanistan] è a buon punto per soddisfare i livelli di forza diretta mantenendo le capacità necessarie.” Bene, come si diceva una volta, andatelo a dire ai Marines.
Certo, se i Talebani manterranno la parola gli Americani ritireranno il resto delle loro truppe entro 14 mesi. E tutto questo, dobbiamo ricordarlo, in una nazione talmente divisa che i due presidenti rivali hanno tenuto a Kabul cerimonie di giuramento separate, proprio alla maniera degli imperatori romani, sebbene il paese possa a malapena contenere sia Roma che Bisanzio, beffando in questo modo tutte le pretese americane di creare la democrazia in Afghanistan.
Ricordo ancora il funzionario americano che, già nel 2002, dopo che i Talebani erano appena stati “distrutti“, ricordiamolo, aveva detto che questa nuova democrazia afgana avrebbe potuto anche essere “non-Jeffersoniana.” Ciò che quel particolare padre fondatore avrebbe fatto dell’accordo USA-Talebani è ancora da vedere. Avrebbe anche potuto manifestare la propria approvazione per le ragioni dei Talebani.
Ma il nocciolo della questione è mantenere l'”impronta” americana in Medio Oriente. Un momento lo si vede, un altro no. Dopotutto, non sono passate molte settimane da quando Trump aveva detto che non avrebbe abbandonato i Curdi siriani, e poi aveva abbandonato i Curdi siriani subito dopo che avevano finito di combattere e di morire per l’America nella campagna contro l’Isis. Poveri vecchi Curdi. Poveri vecchi Afgani. E poveri Iracheni. Non meritavano davvero gli Americani.
Gli Stati Uniti, in ogni caso, non hanno tempo per preoccuparsi di loro. Hanno un’altra guerra per le mani, contro un virus abbastanza fastidioso, pare. E non puoi “riposizionarti” lontano da quello.
Robert Fisk

domenica 26 aprile 2020

ESCLUSIVO (doppiato ITA) Dottor Rashid Buttar espone Bill Gates, Fauci e il COVID-19

Il massone Bob Dylan, Kennedy e i golpisti del coronavirus

Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Un pilota della Cia, Tosh Plumlee, conferma di aver trasportato a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.
Alla vigilia, in un drammatico summit nella città texana, il piano venne convalidato dal Deep State: con lo stesso Howard Hunt, nella villa del petroliere Clint Murchinson c’era Edgar Hoover (Fbi) insieme al vice di Kennedy, Lyndon Johnson, e ad Kennedyaltri due futuri presidenti degli Stati Uniti, Richard Nixon e George Bush. Potere criminale: ma perché riparlarne oggi, come fa Bob Dylan, suggerendo un collegamento tra quell’atroce mattanza e il coronavirus? «State attenti e mettetevi al riparo», ha scritto Dylan sul suo sito, il 27 marzo, presentando l’esplosiva “Murder Most Foul”, regalata al pubblico “worldwide”, in modo sorprendente e spettacolare. Una strepitosa ballad lunga 1016 secondi (quasi 17 minuti) che ripercorre “l’omicidio più ignominioso”, facendo di Kennedy il simbolo di un’America che si stava svegliando, anche sulle ali della musica, per uscire dall’incubo della guerra fredda e della segregazione razziale, del terrore nucleare, del Vietnam.
Perché farlo proprio adesso? Perché diventa così loquace, un solitario come Dylan, sempre ultra-reticente con la stampa? Probabilmente, la domanda contiene già la risposta: era indispensabile lanciare un avvertimento, sia pure filtrato dall’eleganza del linguaggio artistico. Un messaggio però anche esplicito, con indizi messi lì apposta per lasciarsi decodificare: l’invito a “suonare il numero 9, il numero 6″, cioè la perfezione dell’armonia. Roba da esoteristi: come il massonico 33, evocato a proposito dei “fratelli” che avrebbero organizzato “l’inferno”, a Dallas. «Nessun mistero: Bob Dylan è, da sempre, un massone radicalmente ultra-progressista», afferma – clamorosamente – Gioele Magaldi, evidentemente autorizzato a dare ufficialmente la notizia. «Dylan milita nei medesimi circuiti massonici progressisti ai quali appartengo anch’io», aggiunge Magaldi, che nel 2014 – nel saggio “Massoni”, edito da Chiarelettere – ha denunciato le trame anche golpiste e terroristiche della supermassoneria reazionaria.
L’accusa: è stata la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, ad architettare l’11 Settembre e il crollo delle Torri Gemelle, per poi inventarsi anche l’Isis. Se qualche sprovveduto crede ancora alla storiella degli aerei che avrebbero abbattuto le Twin Towers (cadute per “demolizione controllata”, come ormai dimostrato da oltre tremila architetti e ingegneri americani), proprio l’omicidio Kennedy – giudiziariamente irrisolto, dopo oltre mezzo secolo – sta lì a ricordare a tutti che, a volte, “l’impossibile” diventa possibilissimo. Tant’è vero che qualcuno ci lascia la pelle: anche in modo inimmaginabile, Magaldipersino se si tratta di un intoccabile come il presidente degli Stati Uniti. Magaldi mette in fila gli eventi: la stessa élite reazionaria, che nel 1975 usò la Trilaterale di Kissinger per dichiarare guerra alla democrazia sociale, oggi sovragestisce la crisi planetaria della pandemia secondo il modulo Wuhan, fondato sulla sospensione della libertà costituzionale.
Attenti, avverte Magaldi: fu proprio il club di Kissinger a sdoganare la Cina, aprendola al mercato globale, per farne una specie di Frankenstein: formidabile efficienza economica, ma niente democrazia. Un modello perfetto da trapiantare in un futuro Occidente distopico, raggelante, oggi con il pretesto psico-sanitario del coronavirus, il coprifuoco imposto a tutti (provvisorio, ma con la prospettiva che le libertà di ieri non tornino mai più). Ed ecco, allora, Bob Dylan. «La sua uscita – sottolinea Magaldi – è perfettamente sincronizzata con l’altrettanto clamorosa lettera di Mario Draghi al “Financial Times”, in cui l’ex presidente della Bce (fino a ieri massone neoaristocratico, e oggi tornato ai lidi keynesiani delle origini) dichiara guerra alla “teologia” del rigore neoliberista, evocando addirittura il New Deal rooseveltiano: cioè la necessità di ricorrere a massicci aiuti di Stato per svincolare l’economia dal ricatto della finanza speculativa. Un regime che tuttora strangola l’Italia nella morsa dell’Ue, proprio adesso che il paese ha un bisogno drammatico di fondi che non si trasformino in debito».
Draghi e Dylan, strano tandem: in modo diverso paiono dire la stessa cosa. Ovvero: siamo ormai giunti a un bivio esiziale, messi di fronte – con l’accelerazione planetaria della pandemia – a una scelta di campo che si è fatta ineludibile: se la globalizzazione solo finanziaria porta dritti a Wuhan, l’alternativa sta nel riscrivere da zero le regole del mondo. E chi, meglio di John Kennedy, riuscì a esplicitare questo concetto? Era il sogno della New Frontier: un mondo unito, pacificato e libero. Di recente, s’è scoperto un carteggio segreto con Nikita Krushev: i due leader impegnavano Usa e Urss a mettere fine alla guerra fredda Bizzientro il 1970. Ma a costare la vita a Kennedy, probabilmente, fu altro: per esempio, la decisione di stampare direttamente banconote di Stato, svincolate dal sistema bancario. Ed ecco che Jfk, riletto oggi, sembra parlare direttamente a noi, alle prese con le maschere dell’euro-rigore “tedesco”. Ma chi era, veramente, Kennedy?
«Tra le altre cose, il presidente assassinato a Dallas era un inziato eleusino», rivela lo storico fiorentino Nicola Bizzi, che nel sorprendente libro “Da Eleusi a Firenze” mette a fuoco l’ascendenza “eleusina” del Rinascimento italiano. Ovvero: la regia occulta, nel potere della signoria medicea, della tradizione misterica risalente al 1300 avanti Cristo, quando – secondo la narrazione – la dea Demetra avrebbe rivelato ai fedeli di Eleusi, alle porte di Atene, l’origine “atlantidea” della nostra specie, “creata” dagli dei Titani come Poseidone, signore dei mari. Kennedy eleusino? «Di più: era anche un templare, direttamente collegato a Dante Alighieri». Lo sostiene Luca Monti, autore del volume “Firenze, città santa dei templari”, pubblicato da Aurora Boreale, editrice di cui è titolare lo stesso Bizzi. Inserito nella rete odierna del templarismo, Monti spiega: l’autore della Divina Commedia ereditò la guida segreta dell’Ordine del Tempio dopo il rogo in cui fu arso vivo l’ultimo Montigran maestro ufficiale, Jacques de Molay. E il legame con il presidente assassinato a Dallas? «Il successore dell’Alighieri-templare fu Gherarduccio dei Gherardini, antenato di John Fitzgerald Kennedy», nientemeno.
Stupefacente? Be’, sì. Ma questo aiuta a leggere un po’ meglio tra le righe, persino nei riferimenti simbolico-esoterici di cui è gremito l’amletico testo del massone Dylan, “Murder Most Foul”. Va preso sul serio, Luca Monti? Fate voi. Nel 2016, intervistato da Paolo Franceschetti, si sbilanciò con questa previsione: «Nel 2020 succederà qualcosa di inaudito, a livello mondiale». La fonte? Numeri, ancora: nella Commedia di Dante, ricorre il 515. Le profezie contenute nel poema sono intervallate dal medesimo numero di versi, “centodieci e quinque”. «Io penso che questo 515 arriverà verso il 2020», disse Monti, spiegando: «Questo numero rappresenta anche la riunificazione; noi siamo tutti in potenza parti di Dio, particelle divine, e il 515 rappresenta la riunione di noi stessi col divino». Suggestioni da brividi? Certo, si tratta di materiale con cui Bob Dylan ha sempre dimostrato un’estrema confidenza: nessuno come lui ha saputo maneggiare – e con uno slang “pop”, per giunta – la stessa Bibbia e i simboli pescati nei territori dell’alchimia, dell’astrologia, dei tarocchi, della mitologia. Se Kennedy era anche un neo-templare e un iniziato “eleusino”, oltre che un celebrato campione della democrazia, suona sempre meno strano l’omaggio che il grande cantautore gli tributa, in mezzo al panico da coronavirus, come se “Murder Most Foul” fosse anche una dichiarazione di guerra, oltre che un esercizio di pietà.
Cade dall’alto, il guanto di sfida lanciato dall’ex ragazzo di Duluth, con alle spalle sessant’anni di carriera, oltre 50 dischi e anche l’Oscar cinematografico per “Things have changed”, nella colonna sonora di “Wonder boys”. Il prestigio culturale di Bob Dylan è già scritto nella storia: Premio Pulitzer, Nobel per la Letteratura, Legion d’Onore francese, 8 Grammy, Premio Principe delle Asturie. Risale al ‘97 il riconoscimento dei Kennedy Center Honors, e al 2012 la Medaglia Presidenziale della Libertà (massimo “award” civile, negli Stati Uniti). Neppure il Dylan politico è una sorpresa, dai tempi di “Blowin’ in the wind” e “Masters of war”. Suo il primo atto d’accusa, frontale, contro la globalizzazione: “Union Sundown”, nel 1983, anticipa profeticamente la tragedia delle delocalizzazioni, in un mondo che sarebbe stato devastato dallo strapotere delle multinazionali. Forte l’attitudine a scendere in campo direttamente, in modo anche spericolato: l’affarista William Zantzinger dichiarò di essere stato rovinato, da Dylan, per
Bob Dylanla canzone “The lonesome death of Hettie Carroll”, domestica nera uccisa a bastonate. Il pugile afroamericano Rubin Carter, vittima di un caso giudiziario condizionato dal razzismo, fu letteralmente scarcerato in seguito alla campagna per la sua liberazione lanciata da Dylan con il brano “Hurricane”.
«Siamo un paese costruito sulla schiena degli schiavi», disse, in prossimità dell’uscita dell’album “Tempest”, pubblicato nel 2012, in cui riecheggia la guerra civile americana nell’interpretazione del poeta Herny Timrod. Sempre rarissime, le interviste, ma quasi tutte memorabili. «Come spiegare la mia longevità artistica? Be’, da giovane ho fatto un patto con il “comandante in capo”». Tradotto: consacro la mia arte alla maggiore delle cause. Obiettivo: far fermentare il talento, alchemicamente, al servizio dell’umanità. Un modo per “tendere al divino”, per citare il 515 dantesco? Più esplicitamente: «Pensate alla trasfigurazione di Cristo, nel Getzemani». Simboli, certo. Positivi e negativi: «Ha vinto Walt Disney», sentenziò anni fa: «Quindi abbiamo perso tutti». Prigioneri della Matrix, in un mondo di plastica? Ecco, forse il velo potrebbe squarciarsi, oggi, di fronte al dramma del coronavirus che sembra distruggere ogni certezza. A patto però – e qui è il “templare” kennedyano che riemerge, il “massone progressista” – che si abbia il coraggio di metterci la faccia. Per esempio regalando ai senzatetto milioni di dollari, ricavati dal disco natalizio “Christmas in the heart” pensato nel 2009 per sfamare gli homeless d’America (gesto di liberalità squisitamente massonico, se non addirittura rosacrociano).
A proposito: tra i leggendari Rosa+Croce, elusiva confraternita iniziatica capitanata nel secondo ‘900 dal pittore Salvador Dalì, un simbologo italiano come Gianfranco Carpeoro include il grande Freddie Mercury. E il suo gruppo – i Queen – è l’unico (non statunitense) citato da Dylan nella sequenza finale di “Murder Most Foul”, in cui si dispiega lo splendore della colonna sonora “made in Usa” degli irripetibili anni Sessanta. Un indizio rivelatore: siamo di fronte a una stretta parentela, non solo artistica? In recenti conferenze, insieme allo stesso Magaldi, Carpeoro ha svelato la cifra massonica di artisti come David Bowie e, in particolare, l’identità anche rosacrociana del massone progressista Michael Jackson, cresciuto nella Prince Hall Freemasonry, l’obbedienza dei neri Il simbolo che negli ultimi anni accompagna i concerti di Dylanamericani. A costargli la vita, a quanto pare, sarebbe stata la canzone “They don’t care about us”, contro gli abusi del grande potere globalista. Un verso recita: «Tutto questo non succederebbe, se Roosevelt fosse ancora qui». Alla moglie di Franklin Delano, Eleanor, madrina della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il giovanissimo Bob Dylan dedicò “Dear Mrs. Roosevelt”, scritta dal suo antico maestro Woody Guthrie.
Sempre Dylan fu tra le star che risposero all’appello di Michael Jackson, autore con Lionel Richie del brano corale “We are the World”, destinato a raccogliere fondi (campagna “Usa for Africa”) per assistere la popolazione dell’Etiopia colpita dalla spaventosa carestia del 1985. Oggi, a quanto sembra, siamo all’ennesimo appuntamento con la storia: si tratta di disseppellire John Kennedy, per aiutare il mondo a ritrovare il suo stesso coraggio. Cambiare tutto, senza paura: né del coronavirus, né dei suoi ipotetici “sovragestori”, che probabilmente sognano un pianeta di neo-sudditi, schiavizzati dal terrore dei virus (oggi il “corona”, domani chissà), e sottoposti alla dittatura orwelliana di una polizia sanitaria capace di imporre vaccini e microchip, azzerando la privacy e la libertà. Messaggio: il momento è cruciale. La sfida è lanciata: “Murder Most Foul” è nell’aria, ne sta parlando il mondo intero. «State al riparo, e state attenti», si congeda il quasi ottantenne Dylan. «E che Dio sia con voi».
(Giorgio Cattaneo, 5 aprile 2020).

sabato 25 aprile 2020

Ecco il risultato delle prime 50 autopsie di bergamo: AVEVANO SBAGLIATO COMPLETAMENTE LA DIAGNOSI

Carlo Palermo / Il Giudice Che Visse Due Volte


35 anni fa la strage di Pizzolungo per far saltare in aria il magistrato coraggio Carlo Palermo e nella quale vennero ammazzati la trentenne Barbara Rizzo e i suoi due gemellini, Giuseppe e Salvatore Asta.
Oggi è in corso al tribunale di Caltanissetta il quarto processo, che vede sul banco degli imputati il boss Vincenzo Galatolo, già condannato all’ergastolo per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Galatolo è accusato di essere stato non solo il mandante della strage, ma anche di aver per primo pensato e ideato l’attentato a Carlo Palermo.

Un magistrato all’epoca molto pericoloso non solo per la mafia, ma anche per i livelli collusi della politica già in vena di tangenti. Un mix davvero “esplosivo”.
Torniamo con la memoria a quei tragici fatti.

UN MAGISTRATO DA FAR SALTARE
Il 2 aprile 1985, lungo la statale che porta da Palermo a Trapani, un’auto imbottita di tritolo, piazzata sul ciglio della strada, salta per aria. L’obiettivo è la 132 blindata dove si trova Carlo Palermo con la sua scorta. L’auto era seguita da una Fiat Ritmo non blindata con altri due agenti a bordo.

Barbara Rizzo con i figli. In apertura un’auto saltata in aria nella strage di Pizzolungo e a destra Carlo Palermo
Ma nel momento della tremenda esplosione, la 132 stava superando una terza auto, una Volkswagen Scirocco guidata da Barbara Rizzo, 30 anni, in compagnia dei figli di 6 anni Giuseppe e Salvatore.
Ed è proprio quest’ultima vettura a rimanere completamente distrutta con i tre corpi carbonizzati. Solo ferite lievi per Palermo e i due agenti con lui, Rosario Di Maggio (alla guida) e Raffaele Mercurio. Gravi le ferite riportate dagli altri due, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta, che poi saranno dichiarati inabili al servizio.

Per la strage vennero condannati all’ergastolo, come mandanti, i capi mafia di Palermo e Trapani, ossia Totò Riina e Vincenzo Virga; nonché Nino Madonia e Balduccio Di Maggio per aver portato a Trapani l’esplosivo utilizzato.
Commenta Antimafia Duemila: “Un processo che mise in evidenza le ‘voragini’ di verità che si aprirono nel primo procedimento aperto contro i boss Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo Filippo Melodia. I tre, individuati già nel 1987, furono condannati in primo grado all’ergastolo, per poi essere assolti in appello. L’ex boss di San Giuseppe, Giovanni Brusca, sentito al processo contro Messina Denaro per le stragi del 1992, ha svelato che Riina diede ordine al capo mafia di Caltanissetta, Piddu Madonia, di ‘avvicinare’ i giudici del processo di Pizzolungo per ‘aggiustare il processo’. I pentiti, e le indagini successive, hanno indicato Calabrò, Milazzo e Melodia come gli esecutori. Ma non possono essere riprocessati, per via del ‘ne bis in idem’: per cui non possono tornare imputati di un reato per il quale esiste una sentenza definitiva di assoluzione”.
Follie della giustizia di casa nostra.

ECCOCI AL QUARTO PROCESSO
Il quarto processo iniziato a Caltanissetta, comunque, vede alla sbarra Vincenzo Galatolo, il capo della famiglia dell’Acquasanta, molto vicina ad ambienti deviati dei servizi segreti. Furono i Galatolo, 31 anni fa, ad organizzare il fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone: “menti raffinatissime”, etichettò poi i promotori il giudice scampato per un miracolo.
Un processo che nasce dalle dichiarazioni del pentito Francesco Onorato e della “figlia ribelle” del boss, Giovanna Galatolo. A settembre 2019 il pm, Gabriele Paci, al termine della sua requisitoria ha chiesto 30 anni di galera per Vincenzo Galatolo.

Il tribunale di Caltanissetta
Ma dal processo, celebrato con rito abbreviato, difficilmente uscirà una spiegazione esaustiva circa i motivi che portarono all’attentato che aveva come obiettivo Carlo Palermo, sbarcato in Sicilia solo pochi mesi prima, in arrivo dalla procura di Trento dove aveva portato avanti inchieste bollenti soprattutto sui versanti della corruzione, dei rapporti mafia-politica, delle maxi tangenti di “Stato”, dei riciclaggi spinti: di tutto e di più in quelle esplosive inchieste.
Secondo non pochi, poi, c’è stato anche lo zampino massonico nella strage di Pizzolungo: visto che il nome di Gioacchino Calabrò fa capolino tra le carte della loggia segreta “Iside 2”.
Ecco come lo stesso Palermo parla di quella strage: “Io nel 1985 ho avuto la fortuna di sopravvivere alla rivelazione di alcuni segreti di Stato. Sono stati condannati boss mafiosi. Ma non erano i soli a volermi eliminare. Mi ero avvicinato ad alcuni nomi intoccabili e che infatti non sono mai usciti. Dalla Turchia arrivava la droga, che poi finiva in Sicilia e da qui smistata in Francia e negli Stati Uniti. Armi e terrorismo costituivano parti inscindibili di quei patti segreti. La prova, già allora, che la grande criminalità è un fenomeno globale e complesso. I giudici, frenati dal criterio della territorialità, giocano una sfida impari. Servirebbe un reale coordinamento internazionale delle indagini. Altrimenti è impossibile venirne a capo”.

LA STRAGE DEL SANGUE INFETTO
Torna a vivere a Trento, dopo l’attentato, Carlo Palermo. Lascia la magistratura e comincia a fare l’avvocato. Ma profonde il suo impegno civile anche nella politica. Aderisce alla neonata Rete di Leoluca Orlando, viene eletto consigliere provinciale.
E non la prende sottogamba, la politica, perché nelle sue interrogazioni c’è tutto quello spirito investigativo che l’ha sempre contraddistinto.
Fa sua una battaglia molto impegnativa, quella per denunciare i traffici di emoderivati e quello che poi diventerà lo “scandalo per il sangue infetto”.
Aveva raccolto, infatti, informazioni e notizie su strani movimenti in alcuni depositi nel Veneto, in particolare nel padovano, documentati nella sua interrogazione. Che in breve diventa una corposa “notitia criminis” che dà il via a massicce investigazioni delle fiamme gialle e ad un’inchiesta della magistratura trentina. E la procura acquisisce il dossier Palermo, del quale fa parte il volume “Sua Sanità”, edito a febbraio 1992 dalla trentina “Publiprint”, la coraggiosa casa guidata da Eugenio Pellegrini e che aveva già dato alle stampe libri coraggiosi, come quelli di padre Alex Zanotelli e dello stesso Carlo Palermo.
E’ coedito dalla Voce, “Sua Sanità”, dedicato alle rocambolesche imprese dell’allora ministro Francesco De Lorenzo. Autori sono Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola.
In un corposo capitolo del volume vengono dettagliate imprese altrettanto mirabolanti, quelle del gruppo Marcucci nel ricco settore degli emoderivati, capitanato dal padre-patriarca-padrone Guelfo, con il figlio Andrea in rampa di lancia sul fronte politico: è infatti il più giovane deputato in parlamento, fresco d’elezione nel 1991 sotto i vessilli del Pli di Renato Altissimo e dello stesso De Lorenzo.
L’inchiesta trentina vede sotto i riflettori le società che popolano l’“impero del sangue” griffato Marcucci, già all’epoca oligopolista in Italia.

Duilio Poggiolini
Partito nel 1999 a Trento, il processo passerà poi a Napoli, dormendo per anni negli sgarrupati scantinati del centro direzionale, sede del tribunale. Prende il via – dopo colossali ritardi e solo 9 parti civili – nel 2016 e si conclude dopo tre anni esatti con un clamoroso “il fatto non sussiste”, sentenza pronunciata dalla sesta sezione penale del tribunale partenopeo. Tutti liberi come fringuelli e candidi come gigli gli imputati, tra i quali svariati funzionari delle aziende del gruppo Marcucci e il Re mida della Sanità ministeriale, Duilio Poggiolini.
Evidentemente “suicidi” tutti i morti per l’uso di emoderivati killer nella strage del sangue infetto: un totale non inferiore ai 5 mila, di sicuro calcolato per difetto (tanti non hanno avuto né i mezzi né la forza per intraprendere alcun percorso giudiziario).
Uccisi due volte.

DEPISTAGGI DI STATO
Ci sono altri gialli da novanta che Carlo Palermo ha seguito in qualità di avvocato delle parti civili.
Come la tragedia del Moby Prince, anche in questo caso una giustizia fino ad oggi calpestata, una memoria delle vittime oltraggiata; appena due mesi fa, dopo tanti anni, restituiti alcuni oggetti ai familiari delle vittime. Un processo altrettanto vergognoso, zeppo di depistaggi, di piste evidenti mai seguite.

Ilaria Alpi
Per non parlare del maxi depistaggio che caratterizza l’inchiesta per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, che proprio il 4 aprile giunge ad un punto di svolta. Giorno in cui scadono i sei mesi di proroga delle indagini chiesti dal gip del tribunale di Roma Andrea Fanelli, dopo ben due richieste di archiviazione avanzate dal pm Elisabetta Ceniccola e controfirmate dall’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone. Carlo Palermo affianca gli avvocati Domenico e Giovanni D’Amati per i familiari rimasti in vita di Ilaria, dopo la morte del padre e della madre che non hanno potuto vedere uno straccio di giustizia.


Ora il gip Fanelli si deve pronunciare: o archiviazione tombale, e giustizia affossata.
Oppure continuare nelle indagini e arrivare finalmente ad un processo.
Che possa mandare in galera, una buona volta, esecutori, mandanti & depistatori: soprattutto dopo che tre anni fa la sentenza del tribunale di Perugia – con la quale è stato scagionato il somalo per 16 anni in galera da innocente – ha aperto la strada giusta.

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