lunedì 4 novembre 2019

La genealogia della questione kurda, di Thierry Meyssan

TUTTO QUEL CHE VI NASCONDONO SULL’OPERAZIONE TURCA “FONTE DI PACE” (1/3)

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Decine di migliaia di civili kurdi fuggono davanti all’esercito turco, abbandonando la terra conquistata, di cui speravano fare la loro patria.


Unanime, la comunità internazionale moltiplica le condanne dell’offensiva militare nel Rojava e assiste impotente alla fuga di decine di migliaia di kurdi, inseguiti dall’esercito turco. Tuttavia nessuno interviene, forse ritenendo che, a causa dell’inestricabile situazione creata dalla Francia e dei crimini contro l’umanità commessi da combattenti e civili kurdi, un massacro sia l’unica via che consenta di ristabilire la pace.


utte le guerre implicano un processo di semplificazione: su un campo di battaglia ci sono soltanto due schieramenti, ognuno deve scegliere il proprio. In Medio Oriente, dove esiste un incredibile numero di comunità e ideologie, il processo è particolarmente travagliato: la specificità di ognuno di questi gruppi non ha più modo di esprimersi e tutti sono costretti ad allearsi con qualcun altro, che tuttavia condannano.
Quando una guerra è al termine, tutti cercano di cancellare i crimini commessi volontariamente o involontariamente, nonché, talvolta, di far sparire alleati scomodi, che si è desiderosi di dimenticare. Molti tentano di ricostruirsi un passato per rendere immacolata la propria immagine. A questo stiamo assistendo con l’operazione turca Fonte di pace alla frontiera siriana e con le inaudite reazioni che suscita.
Per capire quanto sta accadendo non basta sapere che tutti stanno mentendo. Bisogna anche scoprire ciò che nascondono e prenderne atto, anche se chi ha sinora riscosso la nostra ammirazione si rivela un bastardo.

Genealogia del Problema

Se si prestasse fede al racconto dei media europei, si potrebbe pensare che i turchi cattivi stanno sterminando i kurdi buoni, che invece i saggi europei tentano di salvare, malgrado gli spregevoli statunitensi. Ebbene, queste potenze non svolgono il ruolo che si attribuisce loro.
Innanzitutto è opportuno ricollocare gli avvenimenti attuali nel contesto della “Guerra contro la Siria”, di cui non sono che una battaglia, nonché in quello del “Rimodellamento del Medio Oriente Allargato”, di cui il conflitto siriano è solo una tappa.
In occasione degli attentai dell’11 settembre 2001, il segretario della Difesa USA, Donald Rumsfeld, e il nuovo direttore della Trasformazione della Forza, ammiraglio Arthur Cebrowski, adeguarono la strategia del Pentagono al capitalismo finanziario. Decisero di dividere il mondo in due zone: l’area della globalizzazione economica e l’area da considerare come semplice riserva di materie prime. Le forze armate USA avrebbero dovuto distruggere le strutture statali di questa seconda regione del mondo, affinché nessuno potesse opporre resistenza alla nuova divisione del lavoro [1]. Si cominciò con il Medio Oriente Allargato.
Nel 2003, dopo la distruzione di Afghanistan e Iraq, doveva essere la volta della Siria (Syrian Accountability Act), ma parecchi imprevisti richiesero il rinvio dell’operazione fino al 2011. Il piano d’attacco fu riorganizzato, tenendo conto dell’esperienza coloniale britannica nella regione. Londra consigliò di non distruggere completamente gli Stati, di ripristinare uno Stato minimale in Iraq e di mantenere in piedi governi fantocci in grado di amministrare la vita quotidiana delle popolazioni. Sull’esempio della Grande Rivolta Araba del 1915 di Lawrence d’Arabia, occorreva organizzare una “Primavera araba” per issare al potere la Confraternita dei Fratelli Mussulmani, al posto di quella dei wahabiti [2]. Si cominciò col rovesciare i regimi filo-occidentali di Tunisia ed Egitto, poi si attaccarono Libia e Siria.
In un primo tempo la Turchia, membro della NATO, si rifiutò di partecipare alla guerra contro la Libia – suo primo cliente – e contro la Siria, con cui aveva creato un mercato comune. Il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, ebbe l’idea di prendere due piccioni con una fava. Propose all’omologo turco, Ahmet Davutoğlu, di risolvere insieme la questione kurda, in cambio dell’entrata in guerra della Turchia contro Libia e Siria. I due ministri firmarono un Protocollo segreto in cui si prevedeva la creazione di un Kurdistan, non nei territori kurdi della Turchia, bensì in quelli aramaici e arabi della Siria [3]. La Turchia, che è in ottimi rapporti con il governo regionale del Kurdistan iracheno, mirava alla creazione di un secondo Kurdistan per mettere fine all’indipendentismo kurdo sul proprio territorio. L’interesse della Francia, che nel 1911 aveva reclutato tribù kurde per reprimere i nazionalisti arabi, era creare nella regione un Kurdistan-marionetta, allo stesso modo in cui i britannici riuscirono a creare una colonia ebrea in Palestina. Francesi e turchi ottennero il sostegno degli israeliani, che controllavano già il Kurdistan iracheno tramite il clan Barzani, ufficialmente membro del Mossad.
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In marrone chiaro, il Kurdistan disegnato dalla Commissione King-Crane, convalidato dal presidente USA Woodrow Wilson e adottato nel 1920 dalla Conferenza di Sèvres.
I kurdi sono in origine un popolo nomade (questo è il significato del termine “kurdo”) che si spostava nella valle dell’Eufrate, in Iraq, nella Siria e nella Turchia attuali. Organizzato non in tribù bensì in clan, e noto per il proprio coraggio, diede origine a numerose dinastie – fra cui quella di Saladino il Magnifico – che regnarono nel mondo arabo e persiano, e fornì truppe suppletive a numerosi eserciti. All’inizio del XX secolo, dei kurdi furono reclutati dagli ottomani per massacrare le popolazioni non-mussulmane di Turchia, in particolare gli armeni. Questi kurdi si sedentarizzarono in seguito in Anatolia, gli altri invece rimasero nomadi. Alla fine della prima guerra mondiale, il presidente statunitense Woodrow Wilson, in applicazione del paragrafo 12 dei 14 punti del suo famoso discorso (gli scopi della guerra), immaginò un Kurdistan sulle rovine dell’Impero Ottomano. Per delinearne il territorio, inviò sul posto la Commissione King-Crane; nel frattempo i kurdi proseguivano il massacro degli armeni. Gli esperti individuarono una zona in Anatolia e misero in guardia Wilson sulle conseguenze devastatrici di un espansionismo dei kurdi o di uno spostamento dal territorio loro destinato. L’Impero Ottomano fu rovesciato dall’interno da Mustafa Kemal, che proclamò la Repubblica e rifiutò l’amputazione di territorio prevista dal progetto Wilson. Alla fine, il Kurdistan non vide la luce.
Per un secolo i kurdi tentarono la secessione dalla Turchia. Negli anni Ottanta i marxisti-leninisti del PKK avviarono una vera e propria guerra civile, repressa molto duramente da Ankara. Molti kurdi del PKK si rifugiarono nel nord della Siria, protetti dal presidente Hafez al-Assad. Quando il loro leader, Abdullah Öcalan fu arrestato dagli israeliani e consegnato ai turchi, abbandonarono la lotta armata. Alla fine della guerra fredda, il PKK, non più finanziato dall’Unione Sovietica, fu infiltrato dalla CIA e si trasformò: abbandonò la dottrina marxista e divenne anarchico, rinunciando alla lotta contro l’imperialismo e mettendosi al servizio della NATO. L’Alleanza Atlantica fece ricorso alle azioni terroristiche del PKK per contenere l’impulsività di un suo membro, la Turchia.
Nel 1991 la comunità internazionale fece guerra all’Iraq, che aveva invaso il Kuwait. A conclusione della guerra gli occidentali incoraggiarono le opposizioni sciite e kurde a rivoltarsi contro il regime sunnita del presidente Saddam Hussein. Stati Uniti e Regno Unito consentirono il massacro di 200 mila persone, ma occuparono una zona del Paese che vietarono all’esercito iracheno. Ne cacciarono gli abitanti e vi raggrupparono i kurdi iracheni. Dopo la guerra del 2003 questa zona venne integrata nell’Iraq e diventò il Kurdistan iracheno, raccolto attorno al clan Barzani.
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La mappa di stato-maggiore del piano Rumsfeld/Cebrowski per il «Rimodellamento del Medio Oriente Allargato».
Fonte: “Blood borders – How a better Middle East would look”, Colonel Ralph Peters, Armed Forces Journal, June 2006.
Agli inizi della guerra contro la Siria, il presidente Bashar al-Assad accordò la nazionalità siriana ai rifugiati politici kurdi e ai loro figli. I kurdi si misero immediatamente al servizio di Damasco per difendere il nord del Paese dagli jihadisti stranieri. Ma la NATO risvegliò il PKK turco e lo spedì a mobilitare i kurdi siriani e iracheni in vista della creazione di un Grande Kurdistan, come prevedeva sin dal 2001 il Pentagono, e come aveva messo nero su bianco la mappa di stato-maggiore, divulgata dal colonnello Ralph Peters nel 2005.
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La mappa del «Rimodellamento del Medio Oriente Allargato», modificata dopo lo smacco della prima guerra contro la Siria.
Fonte: “Imagining a Remapped Middle East”, Robin Wright, The New York Times Sunday Review, September 28, 2013.
Questo progetto, imperniato sulla divisione della regione su basi etniche, non collima affatto con quello del presidente Wilson del 1919, finalizzato a riconoscere i diritti del popolo kurdo, né con quello francese, finalizzato a ricompensare i mercenari. Era troppo vasto e difficilmente controllabile. Gli israeliani invece ne erano entusiasti perché vi vedevano uno strumento per contenere la Siria dalle retrovie. Alla fine si dovette prendere atto dell’impossibilità di realizzarlo. L’USIP, un istituto dei “Cinque Occhi” legato al Pentagono, propose di modificarlo: un ridimensionamento del Grande Kurdistan a favore di un allargamento del Sunnistan irakeno [4], da affidare a un’organizzazione jihadista, il futuro Daesh.
I kurdi dello YPG, branca siriana del PKK, tentarono di creare un nuovo Stato, il Rojava, con l’ausilio delle forze statunitensi. Vennero sfruttati dal Pentagono per confinare gli jihadisti nella zona loro assegnata. Non ci fu mai contrasto teologico o ideologico tra YPG e Daesh, solo rivalità per un territorio da spartirsi sulle macerie di Iraq e Siria. Del resto, quando l’Emirato di Daesh crollò, lo YPG aiutò gli jihadisti a ricongiungersi con le forze di Al Qaeda a Idlib, consentendogli di attraversare il loro “Kurdistan”.
Riguardo ai kurdi iracheni del clan Barzani, parteciparono direttamente alla conquista dell’Iraq da parte di Daesh. Secondo il PKK, Masrour “Jomaa” Barzani, figlio del presidente, nonché capo dell’intelligence del governo regionale kurdo iracheno, partecipò il 1° giugno 2014 ad Amman alla riunione segreta della CIA in cui venne pianificata l’operazione [5]. I Barzani non scatenarono mai battaglie contro Daesh. Si contentarono di imporgli il rispetto del proprio territorio e di inviarne i combattenti ad affrontare i sunniti. Fecero di peggio: lasciarono che, nella battaglia di Sinijar, Daesh riducesse in schiavitù dei kurdi non-mussulmani, gli yezidi. Quelli che si salvarono lo furono grazie ai combattenti del PKK turco e dello YPG siriano, inviati sul posto.
Il 27 novembre 2017, con il sostegno di Israele, i Barzani organizzarono nel Kurdistan iracheno un referendum di autodeterminazione, che perdettero nonostante gli evidenti brogli. La sera dello scrutinio, il mondo arabo scoprì con stupore a Erbil una marea di bandiere israeliane. Secondo la rivista Israel-Kurd, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si era impegnato, in caso di vittoria, a trasferire 200 mila kurdi israeliani per proteggere il nuovo Stato.
Per avere diritto all’autodeterminazione un popolo deve innanzitutto essere unito. Così non è mai stato nel caso dei kurdi. Deve inoltre abitare un territorio ove è maggioranza, cosa che vale per l’Anatolia, ma solo a cominciare dal genocidio degli armeni; per il nord dell’Iraq, ma solo dopo la pulizia etnica della zona di divieto di volo durante il dopo-Tempesta del deserto; infine per il nord-est della Siria, ma solo dopo l’espulsione degli assiri cristiani e degli arabi. Riconoscere oggi ai kurdi questo diritto equivarrebbe a legittimare i loro crimini contro l’umanità.
(segue…)

venerdì 1 novembre 2019

La verità su Ettore Majorana – Alfredo Ravelli



Alfredo Ravelli, cugino di Rolando Pelizza, strettissimo collaboratore del fisico Ettore Majorana e realizzatore della sua famosissima (e ricercatissima) macchina in grado di trasformare energia e materia, espone a Byoblu le prove che secondo lui documentano inequivocabilmente che Majorana, scomparso misteriosamente nel 1938, sarebbe stato ancora vivo fino a pochi anni fa, e la sua macchina avrebbe dimostrato di poter funzionare.
Chi era Ettore Majorana, perché sparì nel nulla tra il 26 e il 27 marzo del 1938 e soprattutto, che fine fece?
Alfredo Ravelli approfondisce il segreto di Majorana attraverso il suo ultimo libro, “2006: Majorana era vivo! – Le ultime lettere di Ettore Majorana a Rolando Pelizza”.
Quest’ultimo, che sarebbe rimasto in contatto con Majorana attraverso 15 lettere vergate a mano nel 1976 sulla piattaforma di un forte in alta montagna, con un esperimento videotrasmesso mostra ad alcuni conoscenti come sia capace di annichilire una roccia mediante una piccola macchina elaborata da Majorana e afferma di poter utilizzare l’antimateria.
Nei molti esperimenti eseguiti seguendo le istruzioni di Majorana, Pelizza con questa macchina – il cui uso pacifico consiste nella distruzione dei rifiuti e delle scorie radioattive – otterrebbe non solo la possibilità di distruggere elementi, ma soprattutto di poter ricavare grandi quantità di energia praticamente a costo zero. Nei successivi esperimenti Pelizza cerca piena conferma della terza fase indicatagli dal suo maestro: la trasformazione della materia.

giovedì 31 ottobre 2019

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana 30 ott 2019


Rete Voltaire
Focus




In breve

 
L'esecuzione di Abu Bakr al-Baghdadi
 

 
Lo Hezbollah destabilizzato
 

 
La Germania vuole impegnarsi militarmente nel Medio Oriente Allargato
 

 
La geografia del Levante completamente modificata
 

 
La NATO sul punto d'implodere
 

 
L'imperialismo tedesco può sostituirsi a quello statunitense?
 

 
La Siria recupera i propri giacimenti petroliferi
 

 
La Russia richiama la Turchia al rispetto degli impegni
 

 
La stampa australiana contro la censura del governo
 

 
François Hollande è il primo a riconoscere la sconfitta
 
Controversie

 
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mercoledì 30 ottobre 2019

[Reseau Voltaire] Les principaux titres de la semaine 30 ott 2019


Réseau Voltaire
Focus




En bref

 
Les États-Unis se dissocient du négationnisme turc
 

 
Démission de Saad Hariri
 

 
L'exécution d'Abou Bakr al-Baghdadi,
 

 
Le Hezbollah déstabilisé
 

 
L'Allemagne cherche à s'investir militairement au Proche-Orient élargi
 

 
La géographie du Levant totalement modifiée
 

 
L'Otan sur le point d'imploser
 

 
L'impérialisme allemand peut-il remplacer celui des États-Unis ?
 

 
La Syrie récupère ses champs pétroliers
 

 
La Russie rappelle la Turquie au respect de ses engagements
 

 
La presse australienne contre la censure gouvernementale
 

 
Le premier, François Hollande reconnaît la défaite
 
Controverses
Fil diplomatique

 
Donald Trump sur la mort d'Abou Bakr al-Baghdadi
 

 
Mike Pompeo sur la mort d'Abou Bakr Al-Baghdadi
 

 
Mémorandum d'accord entre la Turquie et la Fédération de Russie
 

 
abonnement    Réclamations


Il golpe anglo-americano che aveva messo fine all’indipendenza dell’Australia


Nel 1975, il Primo Ministro Gough Whitlam, che è mancato questa settimana [L’articolo è dell’ottobre 2014 ed era stato scritto subito dopo la morte dell’ex primo ministro, N.D.T.], aveva osato rivendicare l’autonomia del proprio paese. La CIA e il MI6 si erano assicurati che ne pagasse il prezzo.
Sui media e nell’establishment politico australiano è calato il silenzio sulla memoria del grande Primo Ministro riformatore Gough Whitlam. I suoi successi sono riconosciuti, seppur a malincuore, i suoi errori vengono sottolineati con falso rincrescimento. Ma la ragione principale del suo straordinario insuccesso politico, essi sperano, sarà seppellita con lui.
L’Australia, durante gli anni di Whitlam, 1972-75, era diventata per un breve periodo di tempo uno stato indipendente. Un commentatore americano aveva scritto che nessun paese aveva “invertito la sua posizione negli affari internazionali in modo così totale senza passare attraverso una rivoluzione interna.” Whitlam aveva posto fine alla servilità coloniale della sua nazione. Aveva abolito il patrocinio reale, indirizzato l’Australia verso il Movimento dei paesi non allineati, sostenuto le”zone di pace” e si era opposto ai test sulle armi nucleari.
Anche se non veniva considerato un laburista di sinistra, Whitlam era un socialdemocratico anticonformista per principio, orgoglio e correttezza. Credeva che una potenza straniera non dovesse controllare le risorse del suo paese e dettarne la politica economica ed estera. Aveva intenzione di “ricomprare la fattoria.” Nel redigere i primi atti legislativi sui diritti delle terre degli aborigeni, il suo governo aveva risvegliato il fantasma del più grande esproprio terriero nella storia dell’umanità, la colonizzazione britannica dell’Australia e la questione di chi fossero le enormi ricchezze naturali del continente insulare.
I Latino-Americani riconosceranno l’audacia e il pericolo di questa “voglia di libertà” in un paese il cui establishmente era indissolubilmente legato ad un grande potenza straniera. Gli Australiani avevano partecipato ad ogni avventura imperiale britannica, fin da quando in Cina era stata repressa la ribellione dei Boxer. Negli anni ’60, l’Australia aveva implorato per unirsi agli Stati Uniti nell’invasione del Vietnam, poi aveva messo a disposizione i suoi “black team” [gruppi di specialisti per operazioni clandestine], gestiti però dalla CIA. I cablogrammi diplomatici statunitensi pubblicati lo scorso anno da Wikileaks rivelano i nomi di figure di spicco in entrambi i principali partiti, tra cui un futuro primo ministro e un ministro degli esteri, nel ruolo di informatori di Washington durante gli anni di Whitlam.
Whitlam conosceva il rischio che stava correndo. Il giorno dopo la sua elezione, aveva ordinato che il suo staff non venisse “controllato o molestato” dal servizio di sicurezza australiana, Asio, allora come adesso legato all’intelligence anglo-americana. Quando i suoi ministri avevano pubblicamente condannato i bombardamenti americani sul Vietnam definendoli “corrotti e barbari,” un funzionario della stazione della CIA a Saigon aveva dichiarato: “Ci hanno detto che gli Australiani potrebbero benissimo essere considerati dei collaboratori dei Nord-Vietnamiti.
Whitlam aveva chiesto di sapere se e perché la CIA gestisse una base di spionaggio a Pine Gap, vicino ad Alice Springs, un gigantesco aspirapolvere che, come ha da poco rivelato Edward Snowden, consente agli Stati Uniti di spiare tutti. “Se cercherete di fregarci o di manipolarci,” aveva detto il primo ministro all’ambasciatore degli Stati Uniti, “[Pine Gap] diventerà una questione tutta da rivedere.
Victor Marchetti, l’ufficiale della CIA che aveva contribuito a creare Pine Gap, mi aveva confidato in seguito: “Quella minaccia di chiudere Pine Gap aveva fatto venire un colpo apoplettico alla Casa Bianca … si era iniziato a preparare una specie di [golpe come in] Cile.”
I messaggi top-secret di Pine Gap venivano decodificati da un’azienda dipendente dalla CIA, la TRW. Uno dei decodificatori era Christopher Boyce, un giovane turbato dall’inganno e dal tradimento da parte di un alleato. Boyce aveva riveato che la CIA si era infiltrata nella dirigenza politica e sindacale australiana e che si riferiva al Governatore Generale dell’Australia, Sir John Kerr, come “il nostro uomo, Kerr.”
Kerr non era solo l’uomo della Regina, aveva legami di vecchia data con l’intelligence anglo-americana. Era un appassionato sostenitore dell’Associazione Australiana per la Libertà Culturale, descritta da Jonathan Kwitny del Wall Street Journal nel suo libro, The Crimes of Patriots, come “un gruppo d’élite, esclusivamente su invito … smascherato di fronte al Congresso come fondato, finanziato e completamente gestito dalla CIA.” La CIA “aveva pagato i viaggi di Kerr, costruito il suo prestigio … Kerr aveva continuato ad assecondare la CIA per soldi.”
Quando Whitlam era stato rieletto per un secondo mandato, nel 1974, la Casa Bianca aveva inviato a Canberra come ambasciatore Marshall Green. Green era una figura imperiosa e sinistra, che operava all’ombra dello “stato profondo” americano. Conosciuto come il “maestro del golpe,” aveva avuto un ruolo centrale nel colpo di stato del 1965 contro il presidente Sukarno in Indonesia, che aveva provocato quasi un milione di morti. Uno dei suoi primi discorsi in Australia, presso l’Australian Institute of Directors, era stato descritto da un membro allarmato del pubblico come “un incitamento agli imprenditori del paese a ribellarsi contro il governo.
Gli Americani e gli Inglesi avevano lavorato insieme. Nel 1975, Whitlam aveva scoperto che il MI6 britannico stava operando contro il suo governo. “Gli Inglesi stavano effettivamente decodificando i messaggi segreti che arrivavano nel mio ufficio per gli affari esteri,” aveva detto in seguito. Uno dei suoi ministri, Clyde Cameron, mi aveva riferito: “Sapevamo che il MI6 stava spiando le riunioni di gabinetto per conto degli Americani.” Negli anni ’80, alcuni alti funzionari della CIA avevano rivelato che il “problema Whitlam” era stato discusso “con urgenza” dal direttore della CIA, William Colby e dal capo del MI6, Sir Maurice Oldfield. Un vicedirettore della CIA aveva detto: “Kerr ha fatto quello che gli era stato detto di fare.
Il 10 novembre 1975, a Whitlam era stato mostrato un messaggio telex top-secret proveniente da Theodore Shackley, il noto capo della divisione della CIA per l’Asia Orientale, che aveva contribuito al colpo di stato contro Salvador Allende in Cile, due anni prima.
Il messaggio di Shackley era stato letto a Whitlam. In esso si diceva che il primo ministro australiano rappresentava un rischio per la sicurezza del suo paese. Il giorno prima, Kerr aveva visitato il quartier generale del Defence Signals Directorate (DSD), la NSA australiana, dove era stato informato sulla “crisi della sicurezza.”
L’11 novembre, il giorno in cui Whitlam avrebbe dovuto informare il parlamento della presenza segreta della CIA in Australia, era stato convocato da Kerr. Invocando arcaici, vice-regali “poteri di riserva,” Kerr aveva licenziato il suo primo ministro democraticamente eletto. Il “problema Whitlam” era stato risolto e la politica australiana, e la nazione intera, non avrebbero mai più riconquistato la loro vera indipendenza.
John Pilger
Fonte: www.theguardian.com

Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org