martedì 3 luglio 2018

LA DINASTY DEI PARNASI / TUTTI GLI AFFARI MILIONARI E LE AMICIZIE BORDER LINE

Rapporti con il Venerabile Licio Gelli, terreni e proprietà appartenute per una vita ai "Cavalieri dell'Apocalisse mafiosa", quindi lo scrigno di tutti i segreti che facevano capo al super banchiere delle cosche Michele Sindona.
Di tutto e di più nel 'portafoglio' lavori e non solo di casa Parnasi, oggi tornata agli onori delle cronache per l'affaire dello stadio giallorosso a Tor di Valle e l'inchiesta montante della procura di Roma.
Un business che bolle in pentola da almeno un anno e mezzo, dopo un primo trattamento a cura della giunta capeggiata da Ignazio Marino e la stretta finale impressa da quella griffata Virginia Raggi.
Quel 'portafoglio' per anni è stato tra le mani di Sandro Parnasi, il patriarca della dinasty mattonara romana, storicamente rivale del gruppo Caltagirone, con cui ha diviso la torta degli appalti: anche se negli ultimi tempi la potente famiglia tutto cemento ha preferito dedicarsi alle lucrose attività estere. Le questioni romane, quindi, appannaggio soprattutto di Parsitalia & consorelle, sponsorizzate al punto giusto e in modo perfettamente trasversale.


Valter Veltroni e il fratello Valerio.

Nel montaggio di apertura Luca Parnasi e sullo sfondo Michele Sindona
Ecco cosa la Voce scriveva in un'ampia inchiesta di aprile 2011: "La famiglia Parnasi, come la gran parte dei palazzinari romani, ha imparato il copione a memoria: amici di tutti, a destra e a sinistra, con Walter Veltroni e Gianni Alemanno, con Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Sempre a fianco dei manovratori". In quel reportage venivano dettagliati i principali business mattonari dell'epoca all'ombra del Cupolone: da Tor Marancia a Mostacciano e al comprensorio Torrino nord; da Montesacro all'Eur 2; da Casalpalocco alla Collina Fleming.
In quest'ultimo caso, i progetti di casa Parnasi hanno trovato adeguata accoglienza dalla giunta Alemanno, "in perfetta continuità con i desiderata del predecessore Veltroni".
Del resto fu non poco fitta la rete degli interessi tessuta tra Luca Parnasi, il rampollo della dinasty, e Valerio Veltroni, fratello di Walter e con il pallino degli affari immobiliari, lungo l'asse Pisa-Roma.

LEGAMI PERICOLOSI
Ma veniamo alle amicizie border line e agli affari pericolosi.
Titola la Verità di Maurizio Belpietro il 20 giugno: "Quando Gelli scriveva a Parnasi: grazie dei doni". Il riferimento, of course, è al patriarca Sandro Parnasi, uno degli storici mattonari romani.
Come a suo tempo furono, ad esempio, i Marchini e i Belli.
Sul primo fronte la gran parte del patrimonio Marchini è finito proprio sotto l'ombrello dei Parnasi. Mentre il rampante Alfio, dopo aver dismesso le sue partecipazioni nel 'Risanamento', ha pensato bene di tuffarsi nell'agone politico romano. Un flop.
Sull'altro versante, c'è una vicenda tutta da raccontare e che porta dallo scrigno di casa Sindona ai salotti di casa Parnasi. Via Belli. Una story che nel 1990 fa tappa a Napoli. State a sentire.


Alfio Marchini

Quello scrigno, SGI, ossia Società Generale Immobiliare, racchiudeva tutte le ricche partecipazioni immobiliari che facevano capo al super cassiere della mafia e con alte protezioni vaticane, Michele Sindona, il quale finì i suoi giorni grazie ad una tazzina di caffè corretto servitogli nelle galere dell'Ucciardone.
Tra le perle di SGI alcune controllate d'oro, non solo per i beni posseduti ma soprattutto per i segreti custoditi: SGI Lavori, SGI Casa, SGI International e sorella Sogene. Storie di maxi riciclaggi, proventi illeciti, operazioni estere. Di tutto e di più, in quelle casseforti.
Non a caso, infatti, don Michele aveva rilevato il tutto dal Vaticano. Passato Sindona a miglior vita, quel tesoro e soprattutto quei segreti non possono che passare in mani fidate: ed ecco la Arcangelo Belli story, che con alcuni amici mattonari capitolini acquisisce la 'polpa' di Sogene.
Passano gli anni, gli affari non volano con il vento in poppa, comunque il 'bottino' sta al sicuro.
Fino a che tutto finisce nelle aule della sezione fallimentare, va in scena la rituale asta e quel patrimonio finisce nelle mani di uno sconosciuto imprenditore napoletano impegnato nel settore della meccanica idraulica, Paolo Martinez. Di quella liquidazione si occupò un prestigioso studio partenopeo guidato dall'allora avvocato ed ex senatore della Sinistra Indipendente, Gustavo Minervini. La storia è molto complessa e porta fino ai paradisi fiscali all'epoca più accorsati, e ad una serie di fiduciarie, comodo paravento per affari opachi. Potete rileggere la vecchia storia nelle pagine della Voce di ottobre 1990.
Alcuni anni di nebbie, poi l'ultimo passaggio: Sogene & Sgi finiscono nelle mani del gruppo Parnasi: siamo nel 1993, a condurre l'operazione il comandante Sandro, con un Luca che ancora indossa i calzoncini corti, o quasi.
Sorgono spontanee alcune domande: cosa ha portato prima l'Arcangelo Belli, poi mister Martinez quindi Big Parnasi a inghiottire una patata comunque sempre bollente? Valevano più i residui cespiti immobiliari oppure i segreti, pur sempre una 'merce' che ha un suo valore sul mercato? Nessuna inchiesta della magistratura ha mai anche appena cercato di far luce su quei misteri. Da novanta. Varrebbe certo la pena – oggi – di capire il perchè di quelle indagini mancate.

DA SINDONA A GRACI

Elio Lannutti

Passiamo all'altra storia bollente. Aste fallimentari che passione, per Parsitalia, Eurnova e consorelle, ossia i bracci mattonari di casa Parnasi.
Ed è così che sborsando meno della metà del prezzo, ossia circa 130 milioni invece di 290, i costruttori romani riescono ad accaparrarsi un vero e proprio patrimonio immobiliare che fa capo a Francesco Finocchiaro e Gaetano Graci, i due "Cavalieri dell'Apocalisse mafiosa" che hanno per decenni dettato legge nella Sicilia degli appalti, in compagnia di altre dinasty che andavano per la maggiore, come quelle dei Cassina, dei Costanzo e dei Rendo.
La story viene condita anche con il fallimento della banca Sicilcassa, che aveva erogato pingui fondi alle imprese di Finocchiaro e Graci. Uno dei 'tesori' più preziosi che il tandem possedeva erano dei terreni a Roma, zona Eur.
Ecco come cinque anni fa ha dettagliato i fatti il Messaggero di casa Caltagirone, una cronaca che non fa sconti vista la storica rivalità tra i due gruppi mattonari: "Quella proprietà era stata acquistata nel corso di un fallimento della banca Sicilcassa. I terreni dell'Eur su cui oggi sorge il palazzo della Provincia erano di Graci e Finocchiaro. Nel 2002 entrano in campo i costruttori Parnasi che fanno una transazione per comprare i crediti e le azioni di tre società del gruppo Graci-Finocchiaro, che alla data del crac avevano un'esposizione di 287 milioni di euro verso la Sicilcassa. Grazie all'accordo, i Parnasi rilevano tutto pagando meno della metà, 129 milioni. E nel pacchetto ci sono anche i terreni dell'Eur".


Nicola Zingaretti con Enrico Gasbarra

Continuava il Messaggero, all'epoca diretto da Mario Orfeo, poi passato ai fasti Rai: "La trattativa si chiude nel 2003, dopo che la zona era stata trasformata da M1 a M2, ovvero da zona edificabile per servizio pubblico e zona edificabile a destinazione privata. L'operazione è opaca, perchè non è chiaro se nel fare il prezzo per quel terreno alle porte di Roma, i liquidatori di Sicilcassa abbiano tenuto conto di quanto la variazione della destinazione d'uso avrebbe fatto lievitare il valore. E' un fatto, però, che il Comune di Roma, allora guidato da Walter Veltroni, chiude con la Parsitalia di Luca Parnasi un accordo di compensazione: al Comune viene restituita l'area del Pratone della Valle e in cambo la società ottiene la zona di Eur Castellaccio, con una edificabilità complessiva di ben 780 milioni di metri cubi. Tra i tanti edifici che vengono costruiti c'è quello del nuovo palazzo della Provincia, ente abolito nel 2014 ma che nel frattempo ha speso 263 milioni di euro per acquistare una nuova sede, un'operazione avviata dall'ex presidente della Provincia Enrico Gasbarra ma conclusa dal suo successore Nicola Zingaretti, vicino a Parnasi".
Per la più classica delle serie, "Amici Miei".
Una vicenda, quella dell'affare Eur-Parnasi e annessa Provincia story, che passa politicamente del tutto inosservata. Nel più totale e roboante silenzio.
Mosca bianca l'allora senatore Elio Lannutti, storico presidente di Adusbef, l'associazione a tutela dei risparmiatori, che in un'interrogazione parlamentare datata 30 novembre 2011 (la numero 640) denunciava le manovre in corso e chiedeva una risposta al ministro dell'Economia: "il piano di acquisto della nuova sede della Provincia di Roma rischia di appesantire in maniera eccessiva i bilanci dell'ente; non sono chiari i motivi per cui la Provincia venda una parte del proprio patrimonio immobiliare e proceda all'acquisto di un'imponente struttura nella zona dell'Eur".
In basso potete leggere il testo di quell'interrogazione in cui viene anche ricostruito tutto l'iter dello sconcertante affare. Sulle spalle dei romani, dell'erario e a solo vantaggio di un gruppo mattonaro privato.
Che fino a ieri voleva mettere le mani sul governo gialloverde in fase di gestazione…

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L'INCHIESTA DELLA VOCE DO OTTOBRE 1990
Inchiesta Voce ottobre 90

lunedì 2 luglio 2018

La collocazione di Donald Trump, di Thierry Meyssan

Eletto per attuare un mutamento paradigmatico, il presidente Trump continua a suscitare stupore in chi lo scambia per uno sventato. Eppure non sta facendo altro che realizzare le idee sviluppate in campagna elettorale, collocandosi all’interno d’una tradizione politica ben radicata nella storia statunitense, sia pur a lungo trascurata. Prendendo le distanze dalle distorsioni della comunicazione mediatica di Trump, Thierry Meyssan ne analizza l’operato mettendolo a confronto con quanto si è impegnato a fare.



Durante la campagna elettorale per le presidenziali in USA, abbiamo mostrato come la rivalità tra Hillary Clinton e Donald Trump non risiedesse tanto nella differenza di stile quanto nella diversa cultura [1]. L’outsider metteva in discussione il dominio dei puritani e reclamava il ritorno al compromesso originario del 1789 — quello del Bill of Rights — tra i rivoluzionari che si battevano contro re Giorgio e i grandi proprietari terrieri delle 13 colonie.
Non proprio così inesperto di politica, Trump già aveva palesato la propria opposizione al sistema il giorno stesso degli attentati dell’11 settembre [2] e, in seguito, nella polemica sul luogo di nascita del presidente Obama.
Analogamente, non abbiamo interpretato la ricchezza di Trump come un chiaro indizio del suo schieramento a servizio dei più ricchi, bensì come segno dell’intenzione di difendere il capitalismo produttivo contro il capitalismo speculativo.
Abbiamo rimarcato che, sul fronte esterno, i presidenti George W. Bush e Barack Obama hanno intrapreso le guerre di Afghanistan, Iraq, Libia e Siria mettendo in atto la strategia dell’ammiraglio Cebrowski: la distruzione delle strutture statali in tutti i Paesi del «Medio Oriente Allargato» [3]. Abbiamo altresì rilevato come questi stessi presidenti abbiano, sul piano interno, sospeso il Bill of Rights. La combinazione di queste due politiche ha portato allo svilimento e all’impoverimento del ceto medio [«petits blancs»].
Trump invece non si è mai stancato di denunciare l’Impero Americano e di annunciare il ritorno ai principi repubblicani, richiamandosi ad Andrew Jackson (1829-37) [4] e ricevendo l’investitura dagli ex collaboratori di Richard Nixon (1969-1974) [5].
La sintesi del suo pensiero in politica interna era lo slogan «Make America Great Again!» [Letteralmente: Facciamo l’America di nuovo grande! ndt]: smettiamo di inseguire la chimera imperiale e facciamo ritorno al «sogno americano» dell’arricchimento personale. E il compendio della sua concezione della politica estera era lo slogan «America First!», che noi abbiamo interpretato, non nel senso attribuitogli durante la seconda guerra mondiale, bensì nel senso originario. Dunque, non abbiamo visto in lui un neo-nazista, ma un politico che rifiuta di mettere il proprio Paese al servizio delle élite transnazionali.
Fatto ancora più sconcertante: ritenevamo impossibile che Trump potesse giungere a un accordo culturale con la minoranza messicana e abbiamo preconizzato che, alla fine, avrebbe favorito una separazione in via amichevole: l’indipendenza della California (CalExit) [6].
La nostra lettura degli obiettivi e del metodo Trump lasciava tuttavia aperta la questione della capacità di un presidente statunitense di modificare la strategia militare del Paese [7].
Scrivendo per due anni in contrasto con la totalità dei commentatori, siamo stati a torto etichettati partigiani di Trump. Il senso del nostro lavoro è stato travisato. Non siamo elettori statunitensi, quindi non sosteniamo alcun candidato alla Casa Bianca. Siamo analisti politici e ci sforziamo unicamente di comprendere i fatti e di anticiparne le conseguenze.
A che punto siamo oggi?
• Dobbiamo concentrarci sui fatti ed eliminare dal nostro modo di ragionare le distorsioni mediatiche della comunicazione del presidente Trump. • Dobbiamo distinguere ciò che è proprio di Trump da ciò che è la continuità con i suoi predecessori e da ciò che appartiene alle tendenze del momento.

Sul piano interno

A Charlottesville Trump ha sostenuto una manifestazione di suprematisti bianchi e il diritto, anche dopo il massacro di Parkland, di portare armi. Posizioni interpretate come un appoggio alle idee di estrema destra e alla violenza. Al contrario, si è trattato per Trump di promuovere i «Diritti dell’uomo» versione USA, quali sono enunciati nei due primi emendamenti del Bill of Rights.
Indubbiamente si può dire tutto il male possibile della definizione statunitense dei «Diritti dell’uomo» — e noi non cessiamo di criticarla nella tradizione di Thomas Paine [8] — ma si tratta di tutt’altra questione.
Per mancanza di mezzi, il completamento del Muro alla frontiera messicana, costruito dai predecessori di Trump, è lungi dall’essere terminato. È ancora troppo presto per trarne conclusioni. Lo scontro con quegli immigrati ispanici che si rifiutano di parlare inglese e di adeguarsi al compromesso del 1789 non è ancora avvenuto. Donald Trump si è per il momento limitato a sopprimere il servizio in spagnolo dei comunicati della Casa Bianca.
Sulla questione delle modificazioni del clima, Trump ha respinto l’Accordo di Parigi non per indifferenza all’ecologia, ma perché quest’accordo impone un regolamento finanziario che avvantaggia unicamente i responsabili delle Borse dei diritti di emissione del CO2 [9].
In materia economica Trump non è riuscito a imporre la propria rivoluzione: esentare le esportazioni e tassare le importazioni. Ha tuttavia ritirato gli Stati Uniti dai trattati di libero scambio non ancora ratificati, come l’Accordo di Partenariato Transpacifico. Poiché la Border Tax è stata respinta dal Congresso, Trump sta tentando di aggirare i parlamentari e istituire tasse proibitive sull’importazione di alcuni prodotti, provocando lo stupore degli alleati e la collera della Cina [10].
Anche il lancio del programma rooseveltiano di costruzione di infrastrutture langue: Trump ha reperito solo il 15% dei finanziamenti. E non ha ancora lanciato il programma per arruolare cervelli stranieri e rilanciare l’industria americana, benché l’abbia annunciato nella Strategia Nazionale per la Sicurezza [11].
In conclusione, il poco che Trump ha già portato a termine è stato sufficiente a rilanciare produzione e lavoro negli Stati Uniti.

Sul piano esterno

Per liquidare l’Impero americano, Trump aveva annunciato l’intenzione di cessare il sostegno agli jihadisti, di sciogliere la NATO, di abbandonare la strategia di Cebrowski e di rimpatriare le truppe di occupazione. È evidentemente molto più difficile riformare la prima amministrazione federale, cioè le forze armate, che cambiare per decreto le regole economiche e finanziarie.
Il presidente Trump ha prioritariamente piazzato a capo del dipartimento della Difesa e della CIA personaggi fidati, in modo da scongiurare tentativi di ribellione. Ha riformato il Consiglio Nazionale per la Sicurezza, riducendo il ruolo del Pentagono e della CIA [12]. Ha immediatamente messo fine alle “rivoluzioni colorate” e agli altri colpi di Stato che avevano contraddistinto le amministrazioni precedenti.
Trump ha poi convinto i Paesi arabi, tra i quali l’Arabia Saudita, a cessare il sostegno agli jihadisti [13]. Le conseguenze non hanno tardato a manifestarsi: la caduta di Daesh in Iraq e in Siria. Contemporaneamente, Trump ha rinviato lo scioglimento della NATO, accontentandosi di annettervi un compito anti-terrorismo [14]. Nel contempo, nello scenario della campagna britannica contro Mosca, l’Alleanza sviluppa alacremente il proprio dispositivo anti-Russia [15].
Trump ha conservato la NATO solo per controllare i vassalli degli Stati Uniti. Ha deliberatamente screditato il G7, costringendo gli smarriti alleati a prendere atto delle proprie responsabilità.
Per interrompere la strategia Cebrowski nel Medio Oriente Allargato, Trump sta preparando la riorganizzazione della zona, incentrandola sul ritiro americano dagli accordi con l’Iran (JCPoA e accordo bilaterale segreto) nonché sul suo piano per regolare la questione palestinese. Il progetto, che Francia e Regno Unito stanno tentando di sabotare, ha poche possibilità di riuscire a ristabilire la pace nella regione, tuttavia permetterà di paralizzare le iniziative del Pentagono, i cui ufficiali superiori si preparano peraltro a mettere in atto la strategia Cebrowski nel “bacino dei Caraibi”.
L’iniziativa di risoluzione del conflitto coreano, ultimo vestigio della Guerra Fredda, dovrebbe permettere a Trump di mettere in discussione la ragion d’essere della NATO. Gli alleati si sono impegnati in quest’organizzazione solo per prevenire in Europa una situazione analoga a quella della guerra di Corea.
Alla fine, le Forze armate USA non dovrebbero più essere utilizzate per schiacciare piccoli Paesi, bensì esclusivamente per isolare la Russia e per impedire alla Cina di sviluppare le “Vie della seta”.


domenica 1 luglio 2018

La persecuzione di Julian Assange deve finire. O finirà in tragedia


Il governo australiano e il primo ministro Malcolm Turnbull hanno una storica opportunità per decidere quale sarà.
Possono rimanere in silenzio, ma con loro la storia sarà implacabile. Oppure possono agire nell’interesse della giustizia e dell’umanità e portare a casa questo straordinario cittadino australiano.
Assange non chiede un trattamento di favore. Il governo ha chiari obblighi diplomatici e morali di proteggere i cittadini australiani all’estero da gravi ingiustizie: nel caso di Julian, da un pacchiano errore giudiziario e dall’estremo pericolo che lo attende dovesse uscire dall’ambasciata ecuadoriana di Londra senza protezione.
Sappiamo dal caso di Chelsea Manning cosa può aspettarsi se un mandato di estradizione degli Stati Uniti avesse successo – uno speciale relatore delle Nazioni Unite lo ha detto, la tortura.
Conosco bene Julian Assange; lo considero un caro amico, una persona di straordinaria forza d’animo e coraggio. Ho visto rovesciarsi su di lui uno tsunami di menzogne e fango, senza fine, con vendetta, perfidia; e so il perché.
Nel 2008, un piano per distruggere sia WikiLeaks che Assange fu messo a punto in un documento segreto datato 8 marzo 2008. Ne era fautore un ramo del cyber contro-spionaggio del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Vi si descriveva nei dettagli quanto fosse importante distruggere il “sentimento di fiducia” che è il “centro di gravità” di WikiLeaks.
Ciò si sarebbe ottenuto, era scritto, con minacce di “denunce [e] procedimenti penali” e con un assalto implacabile al loro buon nome. Lo scopo era di mettere a tacere e criminalizzare WikiLeaks e il suo direttore responsabile ed editore. Era come se pianificassero una guerra contro un singolo essere umano e contro il principio stesso della libertà di parola.
La loro arma principale sarebbe stata la macchina del fango. Le loro truppe d’assalto sarebbero state arruolate tra i media – quelli che dovrebbero dirci la verità su come realmente stanno le cose.
La cosa ironica è che nessuno disse a questi giornalisti cosa fare. Io li chiamo giornalisti di Vichy – come quel governo di Vichy che servì e permise l’occupazione tedesca della Francia in tempo di guerra.
Lo scorso ottobre, la giornalista australiana della Broadcasting Corporation, Sarah Ferguson, ha intervistato Hillary Clinton, che definì “l’icona della sua generazione”.
Questa era la stessa Clinton che minacciò di “annientare totalmente” l’Iran e che, come segretario di Stato USA nel 2011, fu uno degli istigatori dell’invasione e della distruzione dello stato moderno della Libia, con la perdita di 40.000 vite. Come l’invasione dell’Iraq, anche questa era basata su menzogne.
Quando il presidente libico fu assassinato pubblicamente e in modo raccapricciante con un coltello [inserito nell’ano, n.d.t.], la Clinton fu filmata mentre esultava con gridolii da stadio. Grazie soprattutto a lei, la Libia divenne terreno fertile per l’ISIS e altri jihadisti. E grazie in gran parte a lei, decine di migliaia di profughi hanno dovuto fuggire attraverso il Mediterraneo e molti sono annegati.
Le e-mail trapelate e pubblicate da WikiLeaks rivelarono che la fondazione di Hillary Clinton – che condivide con suo marito – ricevette milioni di dollari dall’Arabia Saudita e dal Qatar, i principali sostenitori dell’ISIS e del terrorismo in tutto il Medio Oriente.
Come Segretario di Stato, la Clinton ha approvato la più grande vendita di armi in assoluto – per un valore di 80 miliardi di dollari – all’Arabia Saudita, uno dei principali benefattori della sua fondazione. Oggi l’Arabia Saudita utilizza queste armi per annientare persone affamate e oppresse in un attacco genocida contro lo Yemen.
Sarah Ferguson, una giornalista molto ben pagata, non ha fatto parola di questo con Hillary Clinton seduta davanti a lei.
Invece, esortò la Clinton a descrivere il “danno” che Julian Assange ha fatto “a lei personalmente”. In risposta, Clinton diffamò Assange, un cittadino australiano, che descrisse come “evidente strumento dell’intelligence russa” e “un opportunista nichilista che fa gli interessi di un dittatore”. Non presentò alcuna prova – né alcuna le fu richiesta – a sostegno delle sue gravi accuse.
Ad Assange non è mai stato dato diritto di risposta a questa sconvolgente intervista, che l’emittente statale australiana, finanziata con fondi pubblici, aveva il dovere di dargli.
Anzi, come se ciò non bastasse, la produttrice esecutiva di Ferguson, Sally Neighbour, commentò l’intervista con un tweet velenoso: “Assange è la puttana di Putin. Lo sappiamo tutti!”
Ci sono molti altri esempi di giornalismo alla Vichy. Il Guardian, che un tempo aveva la reputazione di essere un grande giornale liberale, ha condotto una vendetta personale contro Julian Assange. Come un’amante respinta, il Guardian ha puntato i suoi attacchi personali, meschini, disumani e feroci contro un uomo il cui lavoro ha pubblicato e di cui ha beneficiato.
L’ex direttore del Guardian, Alan Rusbridger, definì le rivelazioni di WikiLeaks, pubblicate dal suo giornale nel 2010, “uno dei più grandi scoop giornalistici degli ultimi 30 anni”. Piovvero premi ed elogi come se Julian Assange non esistesse.
Le rivelazioni di WikiLeaks divennero parte del piano di marketing del Guardian per aumentare il prezzo di copertina del giornale. Fecero soldi, spesso un sacco di soldi, mentre WikiLeaks e Assange lottavano per sopravvivere.
Senza dare un centesimo a Wikileaks, un libro promosso dal Guardian ha portato a un redditizio contratto cinematografico con Hollywood. Gli autori del libro, Luke Harding e David Leigh, hanno arbitrariamente descritto Assange come “persona insensibile e disturbata”.
Rivelarono pure la password segreta che Julian aveva confidenzialmente dato al Guardian e che doveva proteggere un file digitale contenente i cablogrammi dell’ambasciata americana.
Con Assange intrappolato nell’ambasciata ecuadorena, Harding, che si era arricchito alle spalle sia di Julian Assange che di Edward Snowden, fuori tra i poliziotti, gongolava sul suo blog che “sarà Scotland Yard a ridere per ultima”.
La domanda è perché. Julian Assange non ha commesso alcun crimine. Non è mai stato accusato di un crimine. L’episodio svedese è stato fasullo e farsesco e lui è stato scagionato.
Katrin Axelsson e Lisa Longstaff di Donne Contro gli Stupri lo hanno riassunto quando scrissero: “Le accuse contro Assange sono una cortina di fumo dietro la quale diversi governi stanno cercando di reprimere WikiLeaks per aver avuto l’audacia di rivelare al pubblico la loro pianificazione segreta di guerre e occupazioni con i loro conseguenti stupri, omicidi e distruzione … Le autorità si preoccupano così poco della violenza contro le donne che manipolano le accuse di stupro a loro piacimento”.
Questa verità è andata persa o sepolta in una caccia alle streghe dei media che ha vergognosamente associato Assange allo stupro e alla misoginia. La caccia alle streghe includeva voci che si dichiaravano di sinistra e femministe. Hanno deliberatamente ignorato le prove di un estremo pericolo per Assange se fosse stato estradato negli Stati Uniti.
Secondo alcuni documenti svelati da Edward Snowden, Assange sarebbe su di un “elenco da caccia all’uomo”. Una nota ufficiale trapelata dice: “Assange sarà una bella sposa in prigione. Fotti il terrorista. Mangerà cibo per gatti per sempre.”
Ad Alexandra, in Virginia – la periferia dell’élite guerrafondaia americana – un gran giurì segreto, da medioevo – ha cercato per circa sette anni di escogitare un crimine per il quale Assange possa essere perseguito, ma non è facile perché la Costituzione degli Stati Uniti protegge editori, giornalisti e informatori. Il crimine di Assange è di aver rotto un silenzio.
In vita mia, nessun giornalismo investigativo può eguagliare l’importanza di ciò che WikiLeaks ha fatto nel chiamare alla resa dei conti il potere rapace. È come se uno schermo morale a senso unico fosse stato aperto per denunciare l’imperialismo delle democrazie liberali: il loro impegno per la guerra infinita e la divisione e il degrado di vite “indegne”: dalla Torre di Grenfell a Gaza.
Nel 2005, quando Harold Pinter accettò il premio Nobel per la letteratura, fece riferimento a “un vasto arazzo di menzogne su cui ci nutriamo”. Ha chiesto perché “la brutalità sistematica, le atrocità diffuse, la spietata repressione del pensiero indipendente” dell’Unione Sovietica erano ben noti in Occidente mentre i crimini imperiali americani “non sono mai accaduti… anche mentre stavano accadendo, non sono mai accaduti”.
Nelle sue rivelazioni di guerre fraudolente (Afghanistan, Iraq) e le menzogne delle facce di bronzo dei governi (le isole Chagos), WikiLeaks ci ha permesso di intravedere come si gioca il gioco imperiale nel XXI secolo. Ecco perché Assange è in pericolo mortale.
Sette anni fa, a Sydney, ho incontrato un eminente membro liberale del Parlamento federale, Malcolm Turnbull.
Volevo chiedergli di consegnare al governo una lettera di Gareth Peirce, l’avvocato di Assange. Abbiamo parlato della sua famosa vittoria – negli anni ’80 quando, da giovane avvocato, aveva combattuto i tentativi del governo britannico di sopprimere la libertà di parola e impedire la pubblicazione del libro Spycatcher – a modo suo, un WikiLeaks di allora, perché rivelava i crimini del potere statale.
Allora il primo ministro australiano era Julia Gillard, un politico del Partito Laburista che aveva dichiarato WikiLeaks “illegale” e voleva annullare il passaporto di Assange – finché non le fu detto che non poteva farlo: che Assange non aveva commesso alcun crimine: che WikiLeaks era un editore il cui lavoro era protetto dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, di cui l’Australia era uno dei primi firmatari.
Abbandonando Assange, cittadino australiano, e colludendo nella sua persecuzione, il comportamento oltraggioso del primo ministro Gillard costrinse la questione del suo riconoscimento, ai sensi del diritto internazionale, come rifugiato politico la cui vita era a rischio. L’Ecuador invocò la Convenzione del 1951 e concesse il rifugio ad Assange nella sua ambasciata a Londra.
Recentemente Gillard è apparsa in una serata con Hillary Clinton; le due sono osannate come femministe pioniere.
Se c’è una cosa per cui ricordare Gillard, è un discorso guerrafondaio, servile, imbarazzante che ha fatto al Congresso degli Stati Uniti subito dopo aver chiesto l’annullamento illegale del passaporto di Julian.
Malcolm Turnbull è ora il primo ministro dell’Australia. Il padre di Julian Assange ha scritto a Turnbull. È una lettera commovente, in cui chiede al primo ministro di riportare a casa il figlio perché pensa che ci sia la reale possibilità di una tragedia.
Ho visto la salute di Assange deteriorarsi nei suoi anni di reclusione senza luce solare. Ha avuto una tosse implacabile, ma non gli è neanche permesso il passaggio sicuro da e per un ospedale per una radiografia.
Malcolm Turnbull può rimanere in silenzio. Oppure può cogliere questa opportunità e usare l’influenza diplomatica del suo governo per difendere la vita di un cittadino australiano, il cui coraggioso servizio pubblico è riconosciuto da innumerevoli persone in tutto il mondo. Lui può portare a casa Julian Assange. 
John PIlger
18.06.2018
Traduzione di Gianni Ellena per www.comedonchisciotte.org
Questo è il riassunto di un discorso di John Pilger ad una manifestazione a Sydney, in Australia, per evidenziare il confinamento di sei anni di Julian Assange nell’ambasciata ecuadoriana a Londra.

sabato 30 giugno 2018

Circuito di morte nel «Mediterraneo allargato», di Manlio Dinucci

È uno strano traffico quello che solca il Mediterraneo: in una direzione, armi che vanno verso l’Africa e il Medio Oriente; nell’altra, rifugiati vittime di quelle armi. Stranamente, i responsabili politici europei fingono di ignorare la causa principale di queste migrazioni.
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I riflettori politico-mediatici, focalizzati sui flussi migratori Sud-Nord attraverso il Mediterraneo, lasciano in ombra altri flussi: quelli Nord-Sud di forze militari e armi attraverso il Mediterraneo. Anzi attraverso il «Mediterraneo allargato», area che, nel quadro della strategia Usa/Nato, si estende dall’Atlantico al Mar Nero e, a sud, fino al Golfo Persico e all’Oceano Indiano.
Nell’incontro col segretario della Nato Stoltenberg a Roma, il premier Conte ha sottolineato la «centralità del Mediterraneo allargato per la sicurezza europea», minacciata dall’«arco di instabilità dal Mediterraneo al Medio Oriente». Da qui l’importanza della Nato, alleanza sotto comando Usa che Conte definisce «pilastro della sicurezza interna e internazionale». Completo stravolgimento della realtà.
È stata fondamentalmente la strategia Usa/Nato a provocare «l’arco di instabilità» con le due guerre contro l’Iraq, le altre due guerre che hanno demolito gli Stati jugoslavo e libico, e quella per demolire lo Stato siriano. L’Italia, che ha partecipato a tutte queste guerre, secondo Conte svolge «un ruolo chiave per la sicurezza e stabilità del fianco sud della Alleanza».
In che modo, lo si capisce da ciò che i media nascondono. La nave Trenton della U.S. Navy, che ha raccolto 42 profughi (autorizzati a sbarcare in Italia a differenza di quelli dell’Aquarius), non è di stanza in Sicilia per svolgere azioni umanitarie nel Mediterraneo: è una unità veloce (fino a 80 km/h), capace di sbarcare in poche ore sulle coste nord-africane un corpo di spedizione di 400 uomini e relativi mezzi. Forze speciali Usa operano in Libia per addestrare e guidare formazioni armate alleate, mentre droni armati Usa, decollando da Sigonella, colpiscono obiettivi in Libia. Tra poco, ha annunciato Stoltenberg, opereranno da Sigonella anche droni Nato. Essi integreranno l’«Hub di direzione strategica Nato per il Sud», centro di intelligence per operazioni militari in Medioriente, Nordafrica, Sahel e Africa subsahariana.
L’Hub, che diverrà operativo in luglio, ha sede a Lago Patria, presso il Comando della forza congiunta Nato (Jfc Naples), agli ordini di un ammiraglio statunitense – attualmente James Foggo – che comanda anche le Forze navali Usa in Europa (con quartier generale a Napoli-Capodichino e la Sesta Flotta di stanza a Gaeta) e le Forze navali Usa per l’Africa. Tali forze sono state integrate dalla portaerei Harry S. Truman, entrata due mesi fa nel Mediterraneo con il suo gruppo d’attacco.
Il 10 giugno, mentre l’attenzione mediatica si concentrava sulla Aquarius, la flotta Usa con a bordo oltre 8000 uomini, armata di 90 caccia e oltre 1000 missili, veniva schierata nel Mediterraneo orientale, pronta a colpire in Siria e Iraq. Negli stessi giorni, il 12-13 giugno, faceva scalo a Livorno la Liberty Pride, una delle navi militarizzate Usa, imbarcando sui suoi 12 ponti un altro carico di armi che, dalla base Usa di Camp Darby, vengono inviate mensilmente in Giordania e Arabia Saudita per le guerre in Siria e nello Yemen.
Si alimentano così le guerre che, unite ai meccanismi neocoloniali di sfruttamento, provocano impoverimento e sradicamento di popolazioni. Aumentano di conseguenza i flussi migratori in condizioni drammatiche, che provocano vittime e nuove forme di schiavitù. «Sembra che essere duri sull’immigrazione ora paghi», commenta il presidente Trump riferendosi alle misure decise non solo da Salvini ma dall’intero governo italiano, il cui premier viene definito «fantastico».
Giusto riconoscimento da parte degli Stati uniti, che nel programma di governo sono definiti «alleato privilegiato» dell’Italia.

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venerdì 29 giugno 2018

IN AFRICA A SPESE NOSTRE, MA PER GLI AFFARI LORO? – ControRassegna Blu #20



Abbiamo bisogno di difenderci dalle Fake News?

Valerio Malvezzi:
Io ricordo che il Ministero della Propaganda nazista diceva : “Se tu racconti una falsità talmente grande, ma per così tanto tempo a così tante persone, alla fine diventa una verità”.
Allora, Claudio Messora ha tanti meriti, oltre quello… forse l’unico demerito è quello di essere mio amico, ma ha tanti meriti e uno dei meriti è stato quello di avere dato la libertà di opinione a persone come me – ad esempio – che, aldilà di un proprio blog, permettetemi di citarlo: Win The Bank, non aveva la grand possibilità di andare sui principali organi d’informazione, sui giornalini a dire quello che pensava. Io oggi sono qui perché c’è un altro amico che si chiama Antonio Maria Rinaldi che ha fatto la presentazione di questo bellissimo libro che chiede con una domanda retorica: “La Sovranità appartiene al popolo o allo spread?”. Ecco, persone come me, come Antonio Rinaldi, come tanti altri venivano considerati sino a ieri – diciamo – delle persone che dicevano delle fake news.
A me preoccupa moltissimo il bagaglio che un certo tipo di élite sta pensando di fare. E lo raccontano nei modi più strani: parlano della difesa del cittadino, la difesa dal fatto che il povero cittadino, cioè un bambino cretino fondamentalmente possa andare a leggere delle notizie non vere. Allora, ciò che dico io, ciò che dice tutti i giorni Claudio Messora e tante altre persone sulla rete verrebbero classificate come delle cose non vere. Io penso che è dall’età delle caverne che gli uomini raccontano coi graffiti, e i nostri nonni lo facevano nelle stalle, le opinioni, in un modo o nell’altro, magari appunto davanti a una mucca o a un falò e ciascuno diceva le sue cose. Magari qualcuno dice anche delle cazzate, ma c’è sempre qualcuno che dice: «Tu hai detto una cazzata». Ecco, questa è la libertà della rete. Difendete la libertà della rete, impedite la censura, impedite la dittatura. Correte a firmare. Ve ne prego, perché la rete è il diritto di parola di tutti.
FIRMA ANCHE TU PER CHIEDERE AI PARLAMENTARI EUROPEI DI NON RATIFICARE LA DIRETTIVA SUL COPYRIGHT CHE DISTRUGGERÀ LA RETE: https://it.surveymonkey.com/r/SalvaInternet

Africa: aiuti alla cooperazione, o aiuti alla vaccinazione?

Quali sono i Paesi di provenienza dei migranti? La gran parte arriva dall’Africa Occidentale: Nigeria, Costa D’Avorio, Guinea, Gambia. Ed è proprio verso il poverissimo Gambia che è appena partita una delegazione della cooperazione italiana. Ma c’è poco da aspettarsi: la delegazione è composta da giornalisti di Repubblica, La Stampa, Mediaset, Vanity Fair, e scopo del viaggio è… promuovere le vaccinazioni. Insomma: propaganda per i vaccini, affidata ai consueti esperti del settore. Sono questi gli “aiuti internazionali” italiani, che dovrebbero sostenere i Paesi africani, e arginare così le migrazioni? Pare proprio di sì. Questa trasferta è organizzata dal GAVI, l’Alleanza Globale per i Vaccini, che riceve ogni anno ben 100 milioni delle nostre tasse ed è ad oggi addirittura il secondo recipiente degli “aiuti umanitari” italiani. Una montagna di soldi nostri destinati ad un’organizzazione gestita da entità quali la Banca Mondiale, la Fondazione Bill Gates, e persino le industrie che producono vaccini: non certo dame di carità, e neppure scevre da conflitti di interessi, mentre incentivano vaccinazioni in giro per l’Africa. Ecco a che punto è l’”aiutiamoli a casa loro” per Nigeria, Guinea, Gambia: soldi per le trasferte dei giornalisti, e per i vaccini. C’è parecchio da fare, allora, anche qui.

Madri surrogate: in India sono ridotte in schiavitù

L’autorevole quotidiano francese Le Figaro ha pubblicato, qualche giorno fa, una sconvolgente inchiesta ad opera della scienziata indiana femminista Sheela Saravanan. L’indagine riguarda la situazione della maternità surrogata in India, seconda destinazione al mondo per il cosiddetto “turismo medico”, e in particolare per l’utero in affitto. Quello che Sheila ha scoperto è agghiacciante: le madri surrogate sono tenute in stato di schiavitù. Non hanno alcun diritto sul bambino, ma neanche sul proprio corpo durante la loro gravidanza e tutti i loro movimenti sono strettamente controllati. Non hanno il diritto di uscire o di vedere parenti, e sono costrette anche ad abbandonare gli altri figli per tutto il tempo fino al parto. In clinica non ci sono tv, radio, libri, computer, e vengono alimentate a forza. La loro gravidanza si conclude con un cesareo, e con qualche giorno di allattamento di un bambino che non vedranno mai più. Lo fanno per generosità? Niente affatto. Sono spinte dalla disperazione economica, e in alcuni casi, denuncia la scienziata femminista, neppure questo: ragazze giovani dalle zone più povere sono state rapite, condotte nelle cliniche e costrette a diventare madri surrogate. Traffici simili accadono anche in Nepal e nella vicina Thailandia. La maternità surrogata sta diventando, insomma, l’ennesima piaga del Terzo Mondo.

Farmaci e ambiente: l’Europa se ne infischia

Ancora una volta, l’Europa fa spallucce al drammatico problema dell’inquinamento da smaltimento dei farmaci. In base a studi recenti, parte degli ecosistemi di acqua dolce è minacciata dall’elevata concentrazione di medicinali: il consumo è in aumento sia negli animali, le cui deiezioni finiscono nelle falde acquifere, che nell’uomo, senza che gli impianti di trattamento idrico riescano a fermarli con efficienza. Ad esempio, attualmente oltre 10.000 km di fiumi in tutto il mondo hanno concentrazioni di diclofenac, un antiinfiammatorio da banco, superiori al limite massimo previsto dalla UE. Per questo motivo gli ambientalisti hanno chiesto alla Commissione europea di contrastare l’inquinamento farmaceutico che non solo danneggia gli ecosistemi, ma porta anche alla pericolosa resistenza antimicrobica. La legge è attesa dal 2008, e la proposta originale, piuttosto annacquata rispetto a quello che servirebbe davvero, è bloccata nei cassetti della Commissione dal 2015. Neanche a dirlo, Bruxelles ha di nuovo rinviato tutto a data da destinarsi.

Bonus Extra News

“I dazi? Un altro tabù da infrangere”

All’assemblea di Confartigianato, il ministro dello Sviluppo Luigi di Maio ha dichiarato che il nostro Paese ha un sistema produttivo particolare e dei prodotti così unici, che l’idea di difenderli attraverso l’uso dei dazi non deve essere più un tabù. Di Maio come Donald?

Ritorna il Corpo Forestale dello Stato

Era un impegno che il MoVimento 5 Stelle aveva preso, e ora il Corpo Forestale potrebbe tornare ad essere autonomo. Occorrerà attendere la sentenza della Corte Costituzionale, ma l’Italia tornerà ad avere i suoi “protettori dell’ambiente”, che il decreto Madia aveva cancellato.

Militari italiani nel sud della Libia

Riporta il Messaggero che una forza italiana composta da Polizia, Difesa ed Esercito è già partita per il sud della Libia, per controllare e fermare i flussi migratori all’origine. La missione il risultato di accordi del Viminale, e ha già ricevuto minacce dalle tribù locali.

Iran: rivoluzione colorata in arrivo?

In Iran qualcosa bolle in pentola: proteste contro il governo, gli ayatollah, e in appoggio agli Stati Uniti. Sembra che ci sia anche una grande manifestazione in programma per il 30 giugno. Rivoluzione spontanea, oppure… colorata?
Fonte: IN AFRICA A SPESE NOSTRE, MA PER GLI AFFARI LORO? – ControRassegna Blu #20

Migranti: Tripoli esulta per la svolta italiana


La reazione più importante e la meno pubblicizzata dai media alla “svolta” del governo italiano sull’immigrazione illegale viene dalla Libia dive le autorità militari marittime assegnano a Matteo Salvini l’endorsement più importante.
“La decisione del Governo italiano di chiudere i porti, per noi che lavoriamo per ridurre i viaggi dei migranti via mare, è ottima in quanto le assicuro che ridurrà’ notevolmente le partenze”. Lo afferma il comandante delle motovedette della Guardia Costiera libica, colonnello Abu Ajila Abdelbari, intervistato da Specialelibia.it.
Libyan-coastguard
“Se le autorità italiane decidono di non accettare i migranti nei loro porti, questo scoraggerà i trafficanti, se i maltesi e gli italiani continueranno ad accettare migranti in arrivo dal mare, questo rappresenta per chi decide di intraprendere il viaggio un ingresso sicuro.
Il principale gate era quello italiano così la maggior parte della gente prendeva i gommoni e l’avventura via mare verso l’Italia. Le autorità maltesi non accetteranno mai i migranti secondo me. Se le forze di sicurezza italiane chiudono i porti, questo significa per i trafficanti e per i migranti ‘no way!’.
E’ un chiaro messaggio per coloro che intendono partire”, spiega Abdelbari che afferma di essere “sicuro al 100% che nessuna imbarcazione carica di migranti partirà più dalla Libia verso l’Italia”.
coastguard
Sull’aumento delle partenze nei giorni scorsi, “stiamo affrontando un problema di rifornimento di carburante, siamo senza! Stiamo affrontando un problema finanziario e non possiamo navigare. Se abbiamo i rifornimenti, possiamo tornare a navigare, a fermarli e rimandarli indietro. Penso che la soluzione verrà presto e torneremo a lavorare”.
Le difficoltà tecniche della Guardia Costiera libica verranno affrontate durante l’imminente visita a Tripoli del ministro degli Interni, Matteo Salvini, che ha detto: “conto di andare in Libia entro la fine di questo mese con una missione risolutiva”.
Tripoli chiede da anni che Rona chiuda i porti all’immigrazione illegale per stroncare il business dei trafficanti che, oltre a finanziare il terrorismo islamico, crea enormi problemi di sicurezza in Libia.
ANSA Pattugliatori italiani donati alla GC libica
“Dobbiamo far ripartire la guardia costiera libica dando navi in più e ci stiamo lavorando” ha detto il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli.
“L’obiettivo è non farli partire più”. “Dobbiamo instaurare nuove relazioni con la Libia – prosegue il ministro – che ha in gestione una Guardia costiera con navi che sono state date a loro dall’Italia, con addestramenti e addestratori dati dall’Italia ma che non sono sufficienti per gestire il mare libico e fermare e non far partire i barconi”.
La svolta italiana, resa possibile da un governo che non ha al suo interno lobby legate al business dell’accoglienza come il precedente esecutivo, potrebbe davvero riuscire a chiudere la ritta libica togliendo convenienza ai migranti ad affrontare un viaggio lungo, costoso e pericoloso senza alcuna possibilità di venire accolti in Italia ed Europa.
CNN Libya cost Guard
Un tema non certo nuovo che abbiamo più volte messo in evidenza proponendo il progetto dei respingimenti assistiti che consenta di impedire l’accesso ai porti italiani alle navi delle Ong (come srta facebdo il governo) e assegni alle navi militari il compito di salvare chiunque si avventuri in mare per poi consegnarlo alle autorità libiche che affideranno i migranti illegali alle agenzie dell’Onu per il rimpatrio nel paese d’origine.
Il portavoce della Marina Libica, contrammiraglio Ayob Amr Ghasem, ha invitato l’Italia a tener duro sulla decisione di chiusura dei porti ai migranti e chiede venga tolto l’embargo sulle armi al suo Paese per poter meglio combattere i trafficanti:
La “terza” è “sostenere la Guardia costiera libica e levare l’embargo sulle armi affinchè la Marina e le sue navi da guerra possano contrastare la migrazione illegale”, ha concluso Ghasem.
migranti MARINA MILITARE
L’Italia “ha subito le malefatte dell’immigrazione clandestina, tutti i suoi misfatti, compreso evidentemente l’arrivo di terroristi” ha aggiunto Ghassem.
“Insistete su questa decisione, tenete testa alla Francia, alla Spagna e alle Ong” poichè “alcune organizzazioni non governative “sono la lunga mano di altri soggetti in Europa e in Africa che compiono riciclaggi e altre azioni illegali sotto la copertura della protezione dei migranti e dei diritti umani”, ha aggiunto il portavoce senza fornire altre indicazioni in proposito.
“L’Italia raccoglierà i frutti della propria decisione anche attraverso la riduzione del numero di migranti che vengono dal sud: questo avrà pure effetti positivi in Libia per quanto riguarda l’ingresso di migranti nel Paese”.
IFRONTEX
Secondo i dati del Viminale aggiornati alle ore 8:00 dell’ 11 giugno il numero di migranti e richiedenti asilo arrivati in Italia nel 2018 è diminuito del 76,81 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, anche se negli  ultimi giorni sono sbarcati oltre mille.
Si tratta in tutto di 14.330 persone, provenienti in larga parte dall”Africa subshariana, di cui 9.832 provenienti dalle coste della Libia (-83,41 per cento rispetto al 2017). I dati indicano un aumento degli arrivi nel periodo dal 25 al 29 maggio, con un picco di 1.211 migranti sbarcati il 28 maggio, oltre a circa 339 arrivi registrati dal primo al tre giugno.
Numeri ancora inferiori rispetto allo stesso periodo del 2017, quando si era verificata un”analoga tendenza al rialzo con un picco di ben 3.383 arrivi il 26 maggio 2017.
Secondo le nazionalità’ dichiarate al momento dello sbarco, citate in una tabella del Dipartimento di pubblica sicurezza aggiornata all”11 giugno, in Italia sono sbarcati soprattutto cittadini tunisini (2.940), eritrei (2.228), sudanesi (1.066), nigeriani (1.052), ivoriani (861), maliani (725), guineani (608), algerini (492), pachistani (500) e iracheni (413). Per parte dei rimanenti 3.445 migranti sono ancora in corso le attività di identificazione.
Foto: Frontex, Guardia Costiera Libica, CNN, Ansa e Marina Militare Italiana

Fonte: www.analisidifesa.it

giovedì 28 giugno 2018

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