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domenica 1 dicembre 2019

ASSANGE / IN PERICOLO DI VITA, APPELLO DI 60 MEDICI


Il fondatore di WikileaksJulien Assange, rischia la vita per la mancanza di cure mediche.
Sessanta medici di varie nazioni hanno firmato un appello indirizzato al ministro degli interni britannico, Priti Patel, affinchè intervenga, dal momento che attualmente Assange è detenuto nel carcere di Belmarsh, nella zona sudest di Londra.
Assange è in attesa di un’udienza a febbraio, per contestare l’ennesima richiesta di estradizione negli Stati Uniti, dove viene accusato di ben 18 reati: tra cui quello di aver complottato (sic) contro gli americani, hackerando un computer del Pentagono.
Così viene scritto nella lettera-appello: “Da un punto di vita medico, sulle prove attualmente disponibili, nutriamo serie preoccupazioni riguardo all’idoneità del signor Assange per affrontare un processo nel febbraio 2020. E’ soprattutto nostra opinione che Assange abbia bisogno di una valutazione medica urgente da parte di esperti sul suo stato di salute sia fisico che psicologico. Qualunque terapia medica indicata deve essere somministrata in un ospedale universitario adeguatamente attrezzato e dotato di personale esperto”.
La Svezia, intanto, ha ritirato le sue accuse ad Assange per una storia (chiaramente taroccata) di violenza sessuale che vedeva Assange sul banco degli accusati. Restano in piedi le (altrettanto taroccate) accuse a stelle e strisce per l’attacco al Pentagono…

venerdì 29 novembre 2019

STRAGE DI CAPACI / QUEL TRITOLO “RAFFINATISSIMO”


Torna alla ribalta la strage di via Capaci e il giallo sugli esecutori dell’attentato. E anche sulle modalità dell’operazione.
Adesso arrivano le dichiarazioni di un mafioso che ha deciso di collaborare con la giustizia dieci anni fa, ma solo ora tira fuori alcune “rivelazioni”. Si chiama Pietro Riggio, 54 anni, uomo dalla doppia vita: di giorno agente della polizia penitenziaria e di notte mafioso, affiliato al clan di Caltanissetta.

IL “TURCO” SULLA SCENA DI CAPACI
Alcuni mesi fa, dopo la prima sentenza nel processo “Stato-Mafia”, ha deciso di riprendere a parlare con gli inquirenti di Caltanissetta. E ha appena tirato fuori la storia del “turco”, un ex poliziotto che – stando alla sua ricostruzione – sarebbe stato il protagonista nella preparazione dell’attentato.

Il tribunale di Caltanissetta
I due si sarebbero conosciuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove è avvenuta la “rivelazione”. Ecco cosa racconta Riggio: “Mi ha confidato di aver partecipato alla fase esecutiva della strage di Capaci, si sarebbe occupato dei riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo, operazione eseguita tramite l’utilizzo di skate board”.
Gli hanno domandato Gabriele Paci e Luca Turco, procuratori aggiunti rispettivamente a Caltanissetta e a Firenze: “Perché prima non ha mai parlato di questo ex poliziotto?”.
Ecco la risposta di Riggio: “Fino ad oggi ho avuto paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia. Ma adesso i tempi sono maturi perché si possano trattare certi argomenti”.

Giorni fa, nel corso di un summit alla Direzione Nazionale Antimafia, guidata da Federico Cafiero de Raho, si sono incontrati gli inquirenti che a diverso titolo si occupano ancora della stagione delle stragi d’inizio anni ’90. Contenuti top secret, ma uno degli argomenti è stato anche quello circa le modalità operative nell’attentato di Capaci.
La figura di Riggio fa capolino tra carte e fascicoli del processo bis per la strage in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e la scorta. Il procuratore generale, Lia Sava, ha infatti depositato alcuni verbali in cui si trovano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia ora tornato alla ribalta. Fa il nome del ‘turco’ e spiega, appunto, di averlo conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano.
Nel 2000 la scarcerazione: e poi – stando alle più attendibili ricostruzioni – l’ex poliziotto recluta il mafioso per far parte di una non meglio identificata “struttura” dei Servizi segreti impegnata nella caccia ai latitanti. Un mistero.

Federico Cafiero de Raho

Tra l’altro, Riggio era cugino di Carmelo Barbieri, un mafioso legato all’entourage dello stesso Provenzano.

UN ATTENTATO ARTIGIANALE?
Ma sulle effettive modalità della strage di Capaci a quanto pare il buio è ancora pesto. La verità “giudiziaria” fino ad oggi ufficiale è quella affidata alle ricostruzioni di Giovanni Brusca, il boss che ha appena chiesto i domiciliari dopo anni di galera: rifiutati. Brusca ha sempre ammesso di aver organizzato, sotto il profilo tecnico, l’attentato. Vero? Falso?
E sulla dinamica, da lui stesso ricostruita, ci sono valanghe di dubbi.
Uno dei punti nodali riguarda, appunto, la tecnica: artigianale o professionale? Da dilettanti o da super esperti?
Seguiamo entrambe le piste. E partiamo dalla prima.
I periti nominati dalla procura di Caltanissetta, Claudio Miniero e Marco Vincenti, non hanno dubbi: “L’attentato di Capaci? E’ stato fatto in maniera artigianale”.
E scendono in una serie di dettagli. “L’esplosivo utilizzato era composto da tritolo, nitrato di ammonio e rdx. Un composto compatibile con il contenuto di mine e ordigni navali di fabbricazione americana o inglese”.

Giovanni Brusca
Ancora: “Immediatamente dopo l’attentato, il modo di procedere fu artigianale perché era la prima volta che si manifestava un evento di tale portata. Chi intervenne era impreparato a fronteggiare una situazione del genere”.
Poi: “Lo scopo è stato comunque raggiunto. Non c’era la perfezione ma il tutto è stato compensato con la gran quantità di esplosivo utilizzato. Nell’incertezza hanno collocato una carica molto alta”.
Ed hanno praticamente escluso che fosse stato utilizzato esplosivo Sementex H, proveniente dall’est Europa, come venne invece ipotizzato dagli investigatori dell’Fbi che hanno effettuato indagini sull’attentato di via Capaci. Con ogni probabilità, già allora, depistando…
Da rammentare che Gaspare Spatuzza, nel corso degli interrogatori resi dopo la sua decisione di collaborare con la giustizia, ha dichiarato di essersi occupato del reperimento dell’esplosivo e di averlo recuperato da ordigni bellici inesplosi e rimasti sui fondali del Golfo Persico dopo la seconda Guerra mondiale. Spatuzza, tra l’altro, ha permesso di scoprire – con le sue verbalizzazioni – il taroccamento del teste chiave nei processi Borsellino, ossia di Vincenzo Scarantino, attraverso le cui parole è stato costruito a tavolino, dagli inquirenti, il depistaggio di Stato (arieccoci!) che ha causato la galera per degli innocenti e resi uccel di bosco mandanti & killer per la strage di via D’Amelio, ancora “a volto coperto”.

Tornando a quel tritolo killer usato per Capaci, la ricostruzione dei due periti fa acqua da tutte le parti. Assai poco verosimile, in particolare, il carattere “artigianale”, quasi “fai da te” a cui avrebbero fatto ricorso le “menti raffinatissime” che stanno dietro le stragi. Ai confini della realtà.

‘O SISTEMA DEGLI APPALTI
Ma c’è un’altra versione – tutta da capire – sulle modalità della strage di via Capaci, su tritolo & quant’altro. L’ha fornita tempo fa alla Direzione Investigativa Antimafia un personaggio chiave per decodificare il Sistema degli appalti in quella Sicilia delle stragi e, prima ancora, su quella fittissima rete di lavori pubblici che costituì il “corpus” del maxi rapporto del Ros “Mafia-Appalti”, il detonatore per le stesse stragi che intendevano eliminare quei magistrati-coraggio.
Si tratta del geometra Giuseppe Li Pera, all’epoca un funzionario del gruppo friulano di costruzioni Rizzani De Eccher, tra i più in vista sul fronte dei lavori pubblici a livello nazionale, e quindi anche in Sicilia.

Antonio Di Pietro
Il nome della Rizzani de Eccher faceva parte di quel gruppo di imprese baciate dalla “fortuna”, come ad esempio anche la regina degli appalti in Campania, l’ICLA molto cara ad ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino.
Li Pera ha più volte verbalizzato con i magistrati siciliani ma le sue “piste” sono state concretamente seguite solo dal pm Felice Lima: per questo opportunamente trasferito ad altri incarichi, meno “pesanti” ed ambientalmente molto meno ingombranti.
Il nome di Li Pera, tra l’altro, fa capolino nella fresca verbalizzazione resa da Antonio Di Pietro (e ferocemente contestata proprio da Pomicino) nel corso del processo di Caltanissetta. Perché Di Pietro avrebbe convocato, all’epoca, Li Pera al palazzo di giustizia di Milano per farsi “illustrare” il sistema degli appalti mafiosi in Sicilia, che vedeva il pieno coinvolgimento dello star system delle sigle nazionali, le cosiddette “portappalti”.
Un’inchiesta che Di Pietro “mollò” troppo presto, soprattutto non utilizzando la fonte delle fonti, l’Uomo a un passo da DioFrancesco Pacini Battaglia, che era perfettamente a conoscenza (essendone il protagonista) del meccanismo Appalti-Corruzione in tutta Italia, a partire dalla maxi mazzetta Enimont, la madre di tutte le tangenti.

QUEI CANDELOTTI DI TRITOLO
Ma ecco cosa raccontò il geometra Li Pera agli investigatori della DIA, ricostruzione che fa totalmente a pugni con quella fornita ai magistrati dallo stesso Brusca.
“La ricostruzione fatta da Brusca era, ed è, completamente fasulla”.“Sono un discreto esperto di dinamite, grazie ai lunghi anni di cantiere passati sia all’estero che in Italia. Ho acquisito una discreta conoscenza sull’uso della dinamite sia per lo sfruttamento delle cave che per gli a scavi in trincea e per altre esigenze di cantiere”.

“Posso assicurare che collocare 700-750 chili di tritolo significa collocare almeno, se i candelotti sono da 400 grammi, da 1750 a 1875 pezzi; se invece sono stati usati candelotti da 200 grammi il numero raddoppia”.
“Pezzi che vanno collegati tra loro con il sistema a spina di pesce, nei vari nodi; poi, vanno collegati i detonatori, tarati con millisecondi, in modo tale che l’esplosione vada, dall’estremità del tombino, verso il centro della carreggiata e soprattutto verso l’alto”.
“Bene, tutto questo lavoro di preparazione non può essere stato fatto nel poco tempo che dice Brusca, una notte; non può essere stato fatto di notte; e soprattutto non può essere stato fatto da loro, è sicuramente intervenuto un super esperto”.
Sorgono a questo punto spontanei alcuni interrogativi.
Se così stanno le cose, chi ha imbeccato Brusca?
Come mai dei seri periti sono arrivati a scrivere di “operazione artigianale”?
A questo punto, quali menti raffinatissime stanno alle spalle della preparazione “tecnica” della strage di Capaci?
Tutti interrogativi che bruciano. Oggi più che mai.

www.lavocedellevoci.it

domenica 24 novembre 2019

Addio Taranto, Mittal si porta via i clienti Ilva: era scontato

Roberto Hechich Rilevare stabilimenti, acquisirne i clienti e poi chiuderli. E’ la specialità di ArcelorMittal, colosso mondiale dell’acciaio. «Il risultato di questi giorni sulla questione Ilva era del tutto prevedibile», scrive Roberto Hechich: «Solo che la gente, i politici e la classe dirigente hanno la memoria corta». Mentre Taranto piange, con 10.000 posti di lavoro a rischio (e l’intera industria meccanica italiana senza più acciaio fatto in casa), sul blog del Movimento Roosevelt l’analista ricorda che Arcelor si difese strenuamente contro l’aggressiva offerta pubblica d’acquisto lanciata in Borsa da Mittal: a fine febbraio 2006 le quotazioni dei due gruppi arrivarono ad equivalersi, e Mittal riuscì ad assorbire Arcelor per un valore di 28,6 miliardi di euro. Promesse vane, sul rilancio: «A qualche mese dalla fusione cominciò a delinearsi chiaramente quella che era la strategia di politica industriale del gruppo: chiudere gli stabilimenti in Europa per fermare la concorrenza e acquisire gli ordini di Arcelor, facendo produrre l’acciaio in paesi terzi». Cominciarono anni di lotte tra il gruppo, i governi (Francia e Lussemburgo) e i sindacati: Mittal fu definito da un ministro francese come un «bugiardo senza limiti» che sapeva bene, al momento del lancio dell’Opa, quali sarebbero state le politiche da portare avanti in Europa.
Nel 2003, infatti – continua Hechich – Arcelor aveva cominciato a contrattare con le parti sociali un piano di ristrutturazione di sei impianti in Europa e la cessazione di alcune attività. Nel 2006, Mittal firmò l’acquisto impegnandosi a non chiudere gli altoforni di Liegi (Belgio) e Florange (Francia). Obiettivo dichiarato: metterli a norma immediatamente per rinforzarne la competitività e assicurare l’ambientalizzazione. «La posta in gioco era molto alta, perché gli stabilimenti della Lorena fornivano l’acciaio alle case automobilistiche Bmw e Mercedes». E invece «non avvenne nulla di quanto stabilito, e nel 2009 lo stabilimento di Grandrange (Francia) chiuse senza mai aver beneficiato di quel piano che Mittal aveva promesso allo Stato francese». Aggiunge Hechich: «Buona parte degli stabilimenti sono stati acquistati al solo fine di distruggere la concorrenza europea, acquisire i contratti per poi lasciare gli impianti abbandonati». Non ci voleva un genio per capire che consegnare Taranto nelle mani del gruppo ArcelorMittal avrebbe voluto dire la fine della città: «La sola ragione per la quale un imprenditore spregiudicato come Mittal potrebbe accollarsi uno stabilimento obsoleto e al centro di una questione giudiziaria come l’Ilva di Taranto sarebbe il voler acquisire le commesse Ilva e chiudere, così come ha fatto nel resto d’Europa, senza bonifiche e senza alcun reimpiego degli operai».
Nessuno si sorprenda, se oggi siamo ai titoli di coda: bastava consultare il web per vedere come avesse operato, la multinazionale, in giro per il mondo. E se anche avessimo voluto vendere Taranto ai tedeschi «sarebbe stata la stessa cosa, probabilmente». Infatti, «se gli indiani vogliono far fuori la concorrenza europea, i tedeschi avrebbero voluto far fuori la concorrenza italiana, visto che l’Ilva è il più grande stabilimento d’acciaio d’Europa ed è fondamentale per l’industria manufatturiera italiana, che poi dovrebbe rifornirsi dalla Germania a prezzi maggiori». Lo Stato italiano riuscirà nel miracolo di tirar fuori gli attributi, facendosi carico della questione e risolvendola una volta per tutte? «Certo, Di Maio farebbe una malinconica tenerezza, se non fosse per il fatto che ci va di mezzo la vita lavorativa ed economica di migliaia di famiglie». L’esponente 5 Stelle, allora ministro del lavoro, aveva annunciato di aver «risolto la questione in meno di tre mesi». Chiosa L'ex Ilva di TarantoHechich: in realtà bastava ancora meno – 5 minuti – per scoprire, consultando Google, dove sarebbe andato a parare, il gruppo ArcelorMittal.
Nato nel 2006 dalla fusione tra il colosso europeo Arcelor (Spagna, Francia e Lussemburgo) e l’indiana Mittal Steel Company, il gruppo – basato in Lussemburgo – è il maggior produttore d’acciaio al mondo: con oltre 200.000 dipendenti, di cui metà in Europa, rifornisce l’industria automobilistica e i settori delle costruzioni, degli elettrodomestici e degli imballaggi. Opera in Lussemburgo, Spagna, Italia, Polonia, Romania, Bosnia-Erzegovina e Repubblica Ceca. Tanti gli stabilimenti nel resto del mondo: Sudafrica, Messico, Canada, Brasile, Algeria, Indonesia e Kazakhstan. Il gigante ArcelorMittal è quotato in Borsa a Parigi, Amsterdam, New York, Bruxelles, Lussemburgo e Madrid, e le sue azioni sono incluse in più di 120 indici borsistici. L’acquisizione di Arcelor da parte di Mittal (per 33 miliardi di dollari) venne effettuata attraverso un’offerta pubblica di acquisto ostile, lanciata dopo il fallimento di una precedente fusione pianificata da Arcelor. Oggi il gruppo produce il 10% dell’acciaio mondiale, cosa che lo rende la più grande azienda siderurgica del pianeta: già nel 2007, i ricavi ammontavano a 105 miliardi di dollari. Nel 2016 la società è stata multata dal Sudafrica per aver “fatto cartello”, fissando i prezzi attraverso informazioni aziendali riservate (la sanzione inflitta all’azienda: 110 milioni di dollari).
La produzione è arrivata a 114 milioni di tonnellate di acciaio ogni anno. Con la crisi del comparto i numeri sono calati, ma il fatturato 2016 superava i 50 miliardi di euro (fruttando alla proprietà un miliardo e mezzo di utili). Cifre peraltro facilmente reperibili, anche su Wikipedia: nel 2018 i ricavi hanno superato i 76 miliardi di dollari (8 miliardi più dell’anno precedente), con un utile netto di oltre 5 miliardi. Tradotto: il profitto cresce, tagliando il lavoro, anche se si contrae il fatturato. Oggi, avverte il “Fatto Quotidiano”, il colosso dell’acciaio è in fuga, e non solo da Taranto: ArcelorMittal chiude stabilimenti in Sudafrica, Polonia e Usa, sostenendo che il mercato si starebbe deteriorando, data la contrazione della domanda. Dal 23 novembre, stop a tre altoforni tra Cracovia e Dabrowa Gornicza. Spente anche una fornace vicino a Chicago e l’acciaieria sudafricana di Baia di Saldanha. Oltre a Taranto, ArcelorMittal ha centri di servizio e sedi operative a Monza, Rieti, Avellino, Milano, Torino e Saronno (Varese). Gli stabilimenti ex Ilva, a parte quello pugliese, sono dislocati a Genova e Novi Ligure Lakshmi Mittal(Alessandria), Racconigi (Cuneo), Marghera (Venezia) e Salerno. Se si mette il naso fuori dall’Italia, si scopre che lo stabilimento di Zenica, in Bosnia, acquisito da ArcelorMittal con 22.000 dipendenti, oggi ha appena 3.000 operai.
Uomo chiave dell’azienda è il multimiliardario indiano Lakshmi Mittal: presidente e amministratore delegato, detiene il 37.4% del gruppo. Nato in un villaggio indiano del Rajasthan, vive a Kensington, Londra, dove nel 2004 ha acquistato dal magnate britannico Bernie Ecclestone, allora patron della Formula 1, una sontuosa residenza da 70 milioni di sterline, costruita con uno stile che ricorda il Taj Mahal. Il “Financial Times” lo ha nominato uomo dell’anno nel 2006, e nel 2010 il “Sunday Times” lo ha eletto uomo più ricco del Regno Unito con un patrimonio netto superiore a 22 miliardi di sterline. Per “Forbes”,  Lakshmi Mittal è stato nel 2015 l’82°uomo più ricco del mondo (e il quinto più ricco dell’India) con un patrimonio di 13,5 miliardi di dollari. Sempre secondo “Forbes”, tra le persone più potenti del pianeta, nel 2014 si è piazzato al 57º posto. Nel 2007, ricorda ancora Wikipedia, ha donato circa 3 milioni di sterline al Partito Laburista. Personaggio poliedrico e azionista anche nel calcio (Queens Park Rangers), per i suoi due figli Mittal ha organizzato matrimoni sfarzosi, spendendo rispettivamente 30 e 65 milioni di dollari. Questo è l’uomo che Luigi Di Maio avrebbe “messo in riga”, un anno fa, e contro cui oggi tentano di fare la voce grossa l’avvocato Conte, il ministro Patuanelli e il sindacalista Landini.
Il controllo sulla società, ha raccontato il “Sole 24 Ore”, viene esercitato dai Mittal attraverso sei “trust”, un particolare tipo di società utilizzato da imprese e individui molto ricchi per pagare meno tasse. I sei trust hanno sede nell’isola di Jersey, paradiso fiscale del Regno Unito nel Canale della Manica. Queste società – riassume “Il Post” – sono l’ultimo anello di una lunga catena dove, dopo un lungo giro tra fiduciarie e holding con sede a Gibilterra e in altri paradisi fiscali, arrivano i soldi della famiglia Mittal. All’altro capo della catena rispetto ai trust si trova ArcelorMittal, la multinazionale vera e propria (con sede in Lussemburgo, altro paese con un regime fiscale molto vantaggioso per le imprese). «Grazie a queste complicate strutture, ArcelorMittal è in grado di pagare pochissime tasse», aggiunge il “Post”. «Le sue pratiche di elusione fiscale sono state Calendaraccontate in un’inchiesta del sito francese “MediaPart”. La società ha ricevuto accuse di evasione fiscale anche da diversi governi, come quelli di Ucraina e Bosnia, oltre che accuse di aver compiuto violazioni ambientali e aver agito con mano pesante sulle comunità locali in molti dei paesi dove opera».
Nel 2018, ArcelorMittal si era presentata alla gara per acquistare l’Ilva di Taranto e gli altri due impianti espropriati alla famiglia Riva, accusata di aver violato per anni le leggi di sicurezza e quelle ambientali. «Nonostante la sua reputazione, la sua offerta è stata giudicata migliore di quella della cordata rivale, Acciaitalia, capeggiata da un’altra società indiana, Jindal». L’assegnazione della vittoria ad ArcelorMittal, avvenuta ufficialmente il primo novembre 2018, è stata piuttosto controversa, ricorda sempre il “Post”: «Già all’epoca, diversi osservatori accusavano la multinazionale di non avere intenzione di rilanciare gli impianti italiani, ma di avere come unico obiettivo sottrarli a un potenziale concorrente». Altri invece hanno difeso la società, sostenendo che era l’unica disposta ad investire le cifre necessarie (circa 2 miliardi di euro) a mettere in sicurezza l’impianto di Taranto, e in particolare i suoi estesi parchi dove sono depositati i minerali di ferro, attualmente esposti al maltempo che Patuanelli e Contespesso ne soffia le polveri sulla città di Taranto. A condurre la gara e le trattative con ArcelorMittal fu prima l’allora ministro Carlo Calenda, con il governo Gentiloni, e poi Luigi Di Maio, durante il primo governo Conte.
Di Maio era contrario all’accordo, ma alla fine ha accettato l’offerta della multinazionale. «Con il contratto raggiunto con il governo italiano, ArcelorMittal si è impegnata a investire più di 4 miliardi di euro nella società, ha promesso di occuparsi delle bonifiche dell’impianto di Taranto e di mantenere al lavoro tutti i diecimila dipendenti della società». Da allora però il mercato dell’acciaio è peggiorato. «Anche se nell’ultimo trimestre i conti di ArcelorMittal si sono rivelati migliori del previsto – scrive il “Post” – il 2019 dovrebbe chiudersi con un bilancio molto peggiore rispetto all’anno precedente». Inoltre, alcuni altoforni dell’impianto di Taranto rischiano di dover essere spenti per ordine della magistratura, mentre il governo ha cambiato spesso idea sul cosiddetto “scudo penale” che, in teoria, serve a proteggere manager e dirigenti dell’azienda dal rischio di cause legali per le violazioni commesse dalle gestioni precedenti. Ora siamo al capolinea: ArcelorMittal lascia Taranto a annuncia lo spegnimento degli impianti. Secondo Carlo Mapelli, docente del Politecnico di Milano, se ne va il 30% della siderurgia italiana. Da sola, l’Ilva vale l’1,5% del Pil.

mercoledì 20 novembre 2019

URANIO / LE TRAGICHE CIFRE SULLE PATOLOGIE TRA I MILITARI


Guerra di cifre sul fronte delle patologie causate dall’uranio impoverito.
Secondo alcune fonti, sono addirittura oltre 7 mila i militari colpiti. Al contrario, lo Stato Maggiore italiano minimizza, fino quasi a negare ogni accusa, sostenendo che le forze armate del nostro Paese non utilizzano e non hanno mai utilizzato munizioni all’uranio impoverito.

Fatto sta che nel corso delle varie missioni militari, quasi sempre “umanitarie” (sic), molti nostri militari sono venuti a contatto con l’uranio impoverito; ed è assurdo negare un nesso di causa ed effetto, vale a dire il contatto e l’insorgenza di patologie anche gravissime e in non pochi casi letali.
Sotto il profilo geografico, le regioni più colpite per il numero dei militari ammalati sono la Sardegna (538 casi), cui seguono a ruota la Puglia (501), la Campania (475) e la Sicilia (454). Come si vede, a capeggiare la black list sono le regioni meridionali, quelle sempre e storicamente svantaggiate sotto tutti i profili. Quindi, in prima linea, anche quello sulla tutela del diritto alla salute.
In un recente rapporto dell’Istituto Superiore della Sanità, “si conferma l’azione genotossica dell’uranio e si nota che il danno cellulare è maggiore nel caso di piccole inalazioni ripetute rispetto a quello di una singola inalazione acuta”.

L’ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta
In un precedente rapporto dell’ISS, poi, era stato trovato “un eccesso statisticamente significativo dell’incidenza del linfoma di Hodgkin, un tumore dei tessuto linfonoidi secondari”.
Il nostro Stato Maggiore ha regolarmente ignorato ogni allarme, ha sempre respinto ogni accusa, fregandosene anche delle evidenze statistiche. “Le Forze Armate – questo il tono della aprioristica difesa – mai hanno acquistato o impiegato munizionamento contenente uranio impoverito”.
Sono però in piedi circa 130 procedimenti legali e cause intentate dai militari o dalle loro famiglie contro le forze armate di casa nostra. Tali contenziosi – sottolinea l’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, coordinatore dell’Osservatorio militare – “hanno stabilito una relazione tra l’esposizione all’uranio e le malattie. Ma le gerarchie militari superiori continuano a negare ogni responsabilità. La linea difensiva è sempre la stessa: è stato fatto tutto il necessario per garantire la sicurezza del personale”.
Il ministro della Difesa nel precedente esecutivo gialloverde, Elisabetta Trenta, aveva puntato l’indice contro il “silenzio spaventoso dei vertici” ed annunciato la prossima adozione di una legge per la protezione dei diritti dei militari. Quel disegno di legge prevedeva che in futuro sarebbe stata la Difesa a dover dimostrare che la malattia non è correlata al servizio reso, e non il militare, invertendo così il cosiddetto “onere della prova”.
Cosa succede adesso di quel disegno di legge finito nei cassetti? Lo tirerà fuori il nuovo ministro Lorenzo Guerini, caso mai rafforzandolo sul fronte della tutela della salute dei militari? Staremo a vedere.

lunedì 11 novembre 2019

Piera Aiello (M5S) unica italiane tra le 100 donne più influenti al mondo secondo la BBC

Piera Aiello

Piera Aiello a 14 anni è stata costretta a sposare il figlio di un boss mafioso, ora di anni ne ha 52 ed è una deputata del MoVimento 5 Stelle, da oggi inserita nella lista delle cento donne più influenti al mondo secondo la BBC. Il motivo per cui è finita tra le cento "most powerful women" è che da sempre lotta contro la criminalità organizzata.
Quando si è candidata ha fatto la campagna elettorale a volto coperto a causa delle minacce che subisce dalla mafia, visto che è una collaboratrice di giustizia. Dopo aver ottenuto il seggio nel marzo 2018 ha finalmente rivelato il suo volto in occasione delle commemorazioni per l'anniversario dell'omicidio del capitano Mario D'Aleo, a Valderice, in provincia di Trapani, dove si è fatta fotografare per la prima volta senza velo. Aiello è cognata di Rita Atria, la giovane che si dissociò dalla sua famiglia mafiosa e si suicidò dopo l'omicidio di Paolo Borsellino.
Per 27 anni ha vissuto sotto protezione in una località segreta, lontana dalla sua Sicilia, ma il 4 marzo è stata eletta alla Camera proprio nell'uninominale in Sicilia, nella lista del MoVimento 5 Stelle, in un collegio della provincia di Trapani. La sua foto non era nemmeno sui fac-simile delle schede elettorali e anche il suo tesserino di parlamentare è senza fotografia. Quando ha finalmente svelato il suo volto a Valderice, ha detto:
"Con questa candidatura già mi sono riappropriata del mio territorio, che mi hanno tolto 27 anni fa quando mi hanno portata via. Del mio nome mi sono riappropriata, in un secondo momento, quando sono entrata alla Camera per la prima volta. Adesso nella mia terra mi riapproprio del mio volto"
Nella lista della BBC delle cento "most powerful women" ci sono donne provenienti da diverse parti del mondo, dalla Mauritania al Pakistan, dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Tanzania all'India, dallo Sri Lanka all'Egitto, dalle Filippine alla Tunisia fino alla Siria, lo Yemen e la Turchia.
Le cento prescelte sono state inserite per tanti diversi motivi, ci sono infatti sportive, artiste, giornaliste, medici, imprenditrici, donne che ogni giorno lottano contro il sessismo e i pregiudizi, ma anche donne architetto che hanno lavorato a città smart.
Ecco come Piera Aiello ha commentato la scelta della BBC:
"Sono stata nominata nella lista 100 Women della BBC, fa parte della pluripremiata serie 100 women ed ospita i nomi di donne che fanno la differenza in diverse parti del mondo. Nel passato sono state intervistate moltissime donne di alto profilo tra le quali alcuni premi Nobel. Quest'anno il tema sarà: il futuro è solitamente deciso e modellato da uomini, ma a cosa assomiglierebbe un futuro immaginato dalle donne? Sono state passate in rassegna diverse personalità femminili in tutto il mondo, pioniere in campo scientifico, artistico, dell'informazione, del sociale, dell'educazione e del genere per provare a guardare il mondo attraverso i loro occhi ed immaginare un futuro al femminile. Onorata di essere stata scelta tra le donne che hanno fatto la differenza nel mondo"
www.polisblog.it 

mercoledì 6 novembre 2019

MAESTRO DI INCHIESTE / SANDRO PROVVISIONATO, LA SUA LEZIONE CONTINUA


Due anni fa ci lasciava un grande giornalista, un grande uomo e un nostro grande amico.
Sandro Provvisionato ha avuto un pregio unico: la enorme capacità professionale, il mondo unico di fare inchieste, e la gigantesca carica umana, che sapeva rompere ogni barriera.
Lo abbiamo conosciuto ad una festa dell’Unità a Bologna nel 2002, quando ancora quelle feste avevano un forte senso popolare. Il tema al centro del dibattito (oltre a Sandro c’era Jacopo Fo e noi della Voce) era l’informazione negata, le notizie censurate ed invece il mare di fake news che già allora imperversava (e di fake ne se è cominciato a parlare – a sproposito – solo qualche anno fa).
Fu un incontro magico. Lui, la figura mitica del reporter, che avevamo sempre ammirato ed alla cui esperienze si era ispirato da sempre il giornalismo d’inchiesta della Voce, al nostro fianco.
Misteri d’Italia, il sito promosso da Sandro, per noi uno stimolo continuo a proseguire in quel giornalismo investigativo, per contribuire ad alzare i veli su quei buchi neri – tanti, troppi, senza fine – che hanno popolato le storie di casa nostra.
Ne parlammo poi sempre, con Sandro, nelle appassionanti telefonate tra noi. E Sandro per molti anni ha scritto una imperdibile rubrica sulle colonne cartacee (“Misteri d’Italia”, naturalmente) della Voce, pagine uniche, tasselli di verità, un cammino continuo per far luce, dalla strage di via D’Amelio (memorabili le sue puntate, in particolare sul taroccamento di Scarantino, molti anni prima che venisse alla luce) al Moby Prince, dalle bombe di Bologna a quelle di piazza Fontana.
Un continuo faro per la conoscenza di verità scomode, di depistaggi istituzionali (solo adesso se ne parla in via ufficiale), per una consapevolezza (e una partecipazione sempre maggiore) dei cittadini in una società oppressa dai poteri forti e sempre più privata di una informazione libera, autentica, non omologata e cloroformizzata.
Ne sentiamo di continuo la mancanza, non solo sotto il profilo personale, dell’amicizia e della stima profonde, ma proprio per il suo contributo basilare alla crescita dell’informazione libera, oggi più assediata che mai e per questo bisognosa di menti lucide e coraggiose come la sua.

Il nostro giornalismo d’inchiesta – che cerchiamo di portare avanti ogni giorno in mezzo a montagne di difficoltà economiche (in particolare quelle derivanti dagli attacchi per via “giudiziaria”, cause civili e richieste risarcitorie del tutto campate per aria), personali e di contesto ambientale (operiamo nella non facile Napoli) – è e rimarrà sempre improntato alla sua lezione, al suo esempio. Di coraggio, di intelligenza, di coerenza, e anche di prezzi pagati sul campo.
Sandro, sarai sempre con noi.
La compagna di una vita, Laura Lisci, che abbiamo conosciuto fin dal quel primo incontro a Bologna, ha organizzato un appuntamento a Francavilla a Mare, località a lui molto cara, per ricordare Sandro con letture, filmati e una serie di interventi da parte di amici, giornalisti, operatori dell’informazione.
Ecco la locandina che illustra il prezioso evento.