lunedì 18 marzo 2019

GIALLO ALPI / I SERVIZI SEGRETI SANNO, COPRONO, DEPISTANO E NON SVELANO LA “FONTE”

I servizi segreti di casa nostra sanno tutto sull’omicidio di Ilaria Alpi Miran Hrovatin ma non dicono una parola. Tacciono. E quindi coprono non solo i killer di Mogadiscio ma soprattutto i mandanti di quel tragico duplice assassinio di ormai quasi 25 anni fa.
La circostanza emerge ora in modo clamoroso dalla nuova richiesta di archiviazione presentata il 4 febbraio scorso dal pm della procura di Roma Elisabetta Ceniccola e controfirmata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone. Che già avevano presentato una analoga richiesta un anno fa. Ai confini della realtà.
Per la serie: si sa bene che qualcuno sa e copre, ma invece di completare l’inchiesta e portare davanti ad un tribunale chi mente e svia le indagini, viene chiesta l’archiviazione definitiva del caso. Allucinante.

Il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone.
Ma entriamo di nuovo nella autentica “selva” di carte e faldoni giudiziari – come la definiscono gli stessi inquirenti – per dare un’idea completa del depistaggio nel depistaggio che sta per essere portato a termine.
Un anno fa, appunto, la richiesta di archiviazione del tandem Ceniccola-Pignatone, inviata al gip per la decisione finale. Passano alcuni mesi per individuare il nome del gip incaricato, alla fine si tratta di Andrea Fanelli. Il quale, per le sue indagini, chiede anche una proroga.
Si tratta di verificare quanto è emerso in altre indagini svolte nel 2012 dalle fiamme gialle per conto della procura di Firenze, in particolare a base di intercettazioni. Al telefono parlano alcuni somali tra di loro ed anche con Douglas Duale, il legale di Hashi Omar Assan, il somalo ingiustamente accusato del duplice omicidio, in galera da innocente per 16 anni. Al centro delle conversazioni il caso Alpi, e anche un compenso da 40 mila raccolto a favore dell’avvocato nella comunità somala per pagarne le forti spese sostenute per difendere Hashi.
Incredibile ma vero, quei matateriali raccolti dalle fiamme gialle fiorentine, passati alla procura gigliata nel 2012, ci hanno messo la bellezza di 6 anni per arrivare alla procura competente, quella di Roma, titolare del caso Alpi-Hrovatin!
Altre indagini svolte negli ultimi mesi per accertare le eventuali responsabilità dei militari italiani allora presenti a Modadiscio, e anche dei nostri civili, in particolare sul sospettato numero uno da sempre, l’affarista Giancarlo Marocchino, non approdano a nulla. Addirittura si scopre che Marocchino ha vinto alcuni contenziosi legali per calunnia, visto che il suo nome era stato tirato in ballo nei primi anni!

Giancarlo Marocchino
Insomma, nessun ragno viene cavato dal buco nell’anno di ulteriori indagini ordinate dal gip Fanelli. Ed ora, il 4 febbraio, il pm Ceniccola deposita l’ennesima richiesta di archiviazione del caso, che dovrà ancora una volta passare al vaglio dell’ennesimo gip. Altri mesi di attesa.

LA FONTE SUPERCOPERTA PER 22 ANNI DAI SERVIZI
Intanto, però, è estremamente istruttivo leggere le “motivazioni” messe nero su bianco dal pm Ceniccola e controfirmate da procuratore capo Pignatone. A riprova che il porto delle nebbie è nuovamente saldo e forte nella capitale.
Prima notazione: le ultime indagini sono state affidate il 27 giugno 2018 da Fanelli al Reparto Antiterrorismo del Ros dei carabinieri, che ha depositato una “esaustiva informativa” – come dettaglia il pm – a fine dell’anno scorso, ossia il 13 dicembre 2018.
Andiamo subito al cuore del problema, ossia che i servizi segreti sanno e coprono.
Scrive Ceniccola: “L’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna(AISI, ndr), con foglio riservato del 6 settembre 2018, ha espresso la volontà di continuare ad avvalersi della facoltà di non rivelare legeneralità della risorsa fiduciaria citata nella nota del SISDE del 3 settembre 1997. Il Servizio, argomentando le motivazioni a supporto della propria decisione, ha evidenziato l’irreperibilità del soggetto e, quindi, l’impossibilità di chiedere allo stesso il consenso (negato in precedenti circostanze simili a quella in parola) ad essere sentito quale teste nell’ambito del procedimento in parola”.
Tradotto: l’AISI, vale a dire i nostri servizi segreti, l’ex Sisde, conosce bene dalla bellezza di 22 anni il nome dell’uomo di tutti i misteri, l’agente che sa quel che successe a Mogadiscio e quel che ha combinato Marocchino. Ma lo copre ancora, non vuole rivelare la identità del suo 007.
Il che significa insabbiare il caso per l’ennesima volta e infangare la memoria sia di Ilaria che di Miran. Ucciderli per una seconda volta.
C’è di più. Secondo i servizi quella fonte è “irreperibile”.

Chiara Cazzaniga
Proprio come lo è stata un’altra primula rossa del caso, Ali Rage, alias Gelle, che con la sua falsa verbalizzazione ha fatto sbattere in galera l’innocente Hashi; quel Gelle che è stato taroccato a tavolino dalla polizia di casa nostra, fatto verbalizzare davanti al pm ma non davanti ai giudici del dibattimento, quindi fatto scappare prima in Germania e poi in Inghilerra. Dove lo ha scovato l’inviata di “Chi l’ha visto” Chiara Cazzaniga: e solo quell’intervista ha permesso di riaprire il caso del somalo innocente e ha fatto sancire, al tribunale di Perugia, la totale estraneità di Hashi al duplice omicidio.
Introvabile Gelle allora, per le nostre “intelligence” (sic), introvabile la fonte che tutto sa sul giallo oggi. Ha scritto a chiare lettere di “depistaggio di stato” la sentenza di Perugia a proposito di Gelle un anno e mezzo fa. Ora siamo al secondo depistaggio, con la non-volontà di ri-trovare quella fonte addirittura messa nero su bianco.
Ma nelle 11 pagine firmate del pm Ceniccola per la richiesta di archiviazione c’è ancora molto da leggere.

ITALIANI BRAVA GENTE 
Sulla totale estraneità degli italiani allora presenti a Mogadiscio scrive: “La tesi della responsabilità ‘degli italiani’ nell’omicidio fu ipotesi più volte prospettata nel corso degli anni e sempre risultata priva di concretezza, come anche la responsabilità di Giancarlo Marocchino, il quale addirittura ha ottenuto un risarcimento per i danni subìti dalla diffusione di notizie diffamatorie. Fermo restando poi che l’ipotesi della responsabilità ‘italiana’ va circoscritta al mandato a commettere l’omicidio, poiché non è mai emerso alcun dubbio sulla esecuzione materiale da parte di un commando di cittadini somali”.
E par poco il “mandato a commettere l’omicidio”? D’altra parte, di quale “commando” si tratta, dal momento che fino ad un anno e mezzo fa l’unico colpevole era l’innocente Hashi?
E sullo stesso Hashi state a sentire cosa scrive il pm.
Con specifico riferimento all’estraneità al fatto di Hashi Omar Hassan ed alla falsità della testimonianza di Gelle, si tratta di notizie di pubblico dominio risalenti ad un periodo di gran lunga precedente alla messa in onda della trasmissione ‘Chi l’ha visto’ il 18 febbraio 2015”.  E il pm sciorina un lista di date che – a suo parere – fanno intendere come tutti sapessero dell’innocenza di Gelle, tranne i magistrati che l’hanno tenuto in galera fino alla sentenza di un anno e mezzo fa a Perugia.

Il testimone ‘taroccato’ Gelle
Fa riferimento, Ceniccola, alle tesi della parte civile, ossia i genitori di Ilaria Alpi, convinti dell’innocenza di Hashi: e ci mancherebbe, lo hanno sempre sostenuto contro tutto e contro tutti, soprattutto i togati. Fa poi riferimento alle istanze di revisione del processo avanzate dal suo legale, Douglas Duale: e ci mancherebbe anche stavolta. Quindi parla delle “voci di popolo” della comunità somala. Infine di una sola intervista in precedenza rilasciata da Gelle a un giornalista somalo che collaborava con la RaiMohamed Sabrie, in cui scagionava Hashi da ogni accusa. Ma quell’intervista non venne mai tenuta in alcun conto dagli inquirenti.
Fino all’intervista di Chiara Cazzaniga realizzata in Inghilterra, per “Chi l’ha visto”, a Gelle e grazie alla quale si è riaperto il caso sul killer di Mogadiscio.
Passiamo quindi alla spiegazione circa il macroscopico ritardo nella trasmissione delle informazioni raccolte nel 2012 a Firenze e arrivate a destinazione solo 6 anni più tardi. Nota il pm: “Si è provveduto ad accertare le motivazioni che hanno causato la ritardata trasmissione della nota della Guardia di Finanza di Firenze datata dicembre 2012 alla Procura di Roma, inoltro che l’allora Sostituto Procuratore di Firenze, Squillace Greco, aveva disposto con provvedimento del 19 dicembre 2012”. Il chiarimento è tutto a base di “semplici errori”, “fascicoli pendenti non rintracciati, “sviste”, “fatalità”: tutti termini che ben caratterizzano lo stato comatoso della giustizia di casa nostra.

UNA TOGA SCOMODA SUBITO SCIPPATA
Sulla “Fonte del Sisde” viene sottolineato dal pm: “L’AISI, che è subentrata al Sisde, ha riferito con nota riservata della irreperibilità della fonte con la conseguente impossibilità di interpellarla sull’autorizzazione a rivelarne l’identità. Nel corso delle indagini, e vieppiù nel corso dell’istruttoria della Commissione parlamentare d’inchiesta i cui atti sono stati integralmente acquisiti, sono emerse numerose fonti informative tra cui quelle della Digos di Udine e dei servizi di Firenze e di Trieste, alcune delle quali sono state poi escusse, le cui dichiarazioni sono risultate inutili, inattendibili e non verificabili”.
Non la pensava certo allo stesso modo il primo pm del caso Alpi, l’unico che abbia subito visto chiaro nella tragica story, Gianfranco Pititto, il quale aveva appreso molti dettagli interessanti e inquietanti proprio dalla Digos di Udine, che aveva avuto la prontezza di raccoglieri i primi, significativi elementi. Ma proprio per questo al giudice Pititto dopo pochi mesi è stata scippata l’inchiesta: era “ambientalmente incompatibile”, per il fatto che voleva accertare quelle verità troppo scomode, esplosive, sugli esecutori e soprattutto i mandanti eccellenti. Dopo alcuni anni Pititto lascia la magistratura perchè nauseato e scrive un libro che ricalca per filo e per segno il caso Alpi, “Assalto al potere”. Dopo Pititto si sono alternati altri 8 inquirenti, nessuno dei quali è riuscito – chissà perchè – a ritrovare il bandolo della matassa. Fino all’ennesima richiesta odierna di archiviazione.

Giuseppe Pititto
Che così tombalmente si conclude: “Ancora una volta non si può fare a meno di constatare che anche gli elementi pervenuti in limine, i quali apparivano idonei, se non all’identificazione degli autori materiali ovvero dei mandanti dell’omicidio, almeno ad avvalorare la tesi più accreditata del movente che ha portato al gesto efferato o ad esplorare l’ipotesi del depistaggio, si sono rivelati privi di consistenza. Invero gli stessi se non esplicitamente, almeno implicitamente, hanno trovato soluzione e risposta nella selva di atti confluiti nel procedimento”.
Chiude con la richiesta che “il Giudice per le indagini preliminari voglia disporre l’archiviazione del procedimento ed ordinare la trasmissione degli atti al proprio ufficio”.
Avrà mai la forza e la volontà, il prossimo gip, di districarsi nella “selva” e soprattutto di trovare e far parlare quella “fonte” dei servizi mai cercata? Vale più una qualche forma di privacy rispetto alla memoria di Ilaria e Miran? Cosa e chi protegono i servizi di casa nostra?  Perchè nel frattempo la politica, in coro, tace? E anche il governo gialloverde si allinea a tutti i precedenti nell’omertà? Per quale motivo, ancora un volta, i media alzano una cortina di silenzio omertoso?

Ecco a seguire la richiesta di archiviazione del pm Ceniccola.

sabato 16 marzo 2019

Voce delle Voci - La Newsletter del 16 marzo 2019

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LA  NEWSLETTER DEL 16 MARZO 2019

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LEGGI IL RACCONTO DELLA DOMENICA DI LUCIANO SCATENI


venerdì 15 marzo 2019

STRAGE DEL SANGUE INFETTO / COME E’ NATA LA MAXI INCHIESTA DI TRENTO SUGLI EMODERIVATI KILLER


Sangue infetto, alle battute finali il processo a Napoli cominciato tre anni fa, con una sentenza prevista per il 25 marzo. Alla sbarra l'ex re Mida al ministero della Sanità, Duilio Poggiolini, ed ex dipendenti di aziende del gruppo Marcucci, da sempre oligopolista nella lavorazione e distribuzione di emoderivati in Italia.
La Voce ne scritto più volte, dal momento che i media locali e nazionali hanno praticamente ignorato questo processo "storico": soprattutto per restituire, oltre a quella giustizia da sempre negata, anche la "memoria" alle vittime uccise due volte e ai loro familiari. Al processo napoletano, infatti, sono rappresentate solo 9 parti civili, ma il tragico conto globale parla di almeno 5 mila vittime. Quasi il doppio di quante ne vengono calcolate, per fare un solo esempio, in Inghilterra.
Abbiamo ricevuto molti messaggi e tante storie di sofferenza in questi anni. Di recente ci hanno chiesto di conoscere perché parliamo sempre di "processo cominciato tanti anni fa a Trento", e poi passato a Napoli. Cerchiamo quindi di ricostruire, a questo punto, la genesi della tragedia, delle nostre Torri Gemelle abbattute due volte: perché se il mondo ha giustamente pianto per quelle morti, è incredibile come pochi piangano per le nostre, a causa di una totale mancanza, fino ad oggi, non solo di giustizia, essendo i killer liberi come fringuelli, ma anche di uno straccio d'informazione.

TUTTO COMINCIA A TRENTO

Carlo Palermo

Tutto nasce da un'interrogazione presentata alla Provincia di Trento dal consigliere Carlo Palermo. Si tratta del magistrato coraggio che negli anni '80, in servizio proprio alla procura di Trento, aveva puntato i riflettori sui fondi neri di grandi aziende del parastato. E anche sui traffici di armi e mega riciclaggi. Una vera bomba capace di deflagrare nei palazzi del potere, dai partiti (craxiani d'un tempo in pole position) alle grandi imprese fino alle banche, pesantemente coinvolte nell'affaire.
Palermo stava tirando le somme ed era in procinto di chiudere il cerchio. Ma provvidenzialmente subì un attentato dinamitardo dal quale scampò per puro miracolo. Ma fu costretto ad abbandonare quelle indagini che poi, ovviamente, si sono perse tra le consuete nebbie giudiziarie.
A quel punto Palermo lascia la magistratura, prende un'altra toga, quella di avvocato. Negli anni seguenti dedicherà il suo impegno soprattutto ai buchi neri della nostra storia, dalla strage del Moby Prince fino all'assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E partecipa, Palermo, anche alla vita politica, aderendo nei primi anni '90 alla Rete di Leoluca Orlando.
E proprio nelle vesti di consigliere provinciale della Rete a Trento presenta quell'interrogazione. Punta i riflettori su alcune notizie che all'epoca circolavano negli ambienti sanitari, circa traffici sospetti di sangue ed emoderivati. Nell'interrogazione e nella successiva denuncia presentata in procura da Palermo viene fatto esplicito riferimento al j'accuse contenuto nel libro "Sua Sanità – Viaggio nella De Lorenzo spa, un'azienda che scoppia di salute", edito dalla piccola ma agguerrita casa editrice trentina Publiprint e scritto da Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola, all'epoca direttore e condirettore della Voce della Campania (poi Voce delle Voci), uscito a febbraio 1992. Palermo allega il libro alla sua denuncia.
A fine 1990 la Voce era stata invitata alla prima edizione di "Le Voci dell'Italietta", una iniziativa organizzata dal settimanale "Questotrentino", tra i promotori anche Eugenio Pellegrini, titolare della Publiprint. Ed infatti Publiprint e Voce decisero di coeditare il volume "'O Ministro – La Pomicino story, Bilancio all'italiana", che esce nel '91. In precedenza la Voce stessa aveva pubblicato da sola, nel 1990, in occasione dei 10 anni da terremoto, "Grazie Sisma – Dieci anni di potere e terremoto".

I MIRACOLI DI SUA SANITA'
A febbraio '91, quindi, esce Sua Sanità, che fa subito il botto, entrando per 4 settimane nella classifica tra i libri più venduti in Italia. La presentazione avviene a Napoli nel corso della più nota kermesse del libro, all'epoca, nel Mezzogiorno, "Galassia Gutenberg".
Proprio all'inizio prende la parola il legale di Sua Sanità De Lorenzo, che sventola una citazione miliardaria e la richiesta di sequestro del libro. Gli replichiamo che l'indomani avremmo provveduto a depositare una denuncia per ricettazione nei confronti del suo patrocinato, visto che era di tutta evidenza entrato in possesso illegalmente addirittura delle bozze, con il volume ancora in fase finale di stampa! Titolò in Resto del Carlino: "Ora De Lorenza frega anche le bozze dei libri".
Il libro ricostruisce tutte le acrobazie finanziarie di casa De Lorenzo. Ed un corposo capitolo è dedicato all'amico del cuore, Guelfo Marcucci, all'epoca proprietario di un vero impero del sangue. Un legame appena saldato dalla candidatura del rampollo Andrea Marcucci (oggi capogruppo del PD al Senato) alle elezioni politiche del 1991, dove viene eletto alla Camera – più giovane deputato italiano – sotto i vessilli del PLI di Renato Altissimo e Francesco De Lorenzo, ministro della Sanità. Per facilitarne l'ascesa, De Lorenza pensa bene di "trainarlo" presentandosi proprio nel collegio della Toscana. Di tutto e di più per gli amici. Come fa anche il fratello di Sua Sanità, Renato De Lorenzo, che entra nel consiglio d'amministrazione di una delle fresche perle di casa Marcucci, Sclavo, sigla storica nel tempo passata all'Anic del gruppo Montedison e nel '90 venduta al gruppo Marcucci.
In quel capitolo, in particolare, viene ricordata la prima inchiesta della Voce sul gruppo Marcucci, uscita a luglio 1977. Già allora la Voce della Campania scriveva a proposito dei centri di raccolta di sangue e plasma nell'ex Congo, evidentemente non troppo "sicuri". E guarda caso – come emerge dall'attuale processo di Napoli – siamo proprio negli anni bollenti della raccolta di sangue infetto, metà-fine anni '70 primi '80: come ha sottolineato in una verbalizzazione l'ematologo Elio Veltri, citando le provenienze dall'Africa e dagli Stati Uniti. Perfino le carceri dell'Arkansas, come ha dettagliato in un'altra testimonianza clou il regista americano Kelly Duda, autore dello choccante "Fattore VIII".
Ma torniamo a bomba. Ossia la genesi trentina della "sangue infetto story".

UN PROCESSO LUNGO VENT'ANNI
Dopo l'interrogazione e la denuncia di Carlo Palermo, le fiamme gialle partono con una raffica di indagini. Allargano subito il raggio d'azione – epicentro il Veneto – e scoprono, in alcuni magazzini, un arsenale di scatoloni contenti emoderivati. Destinatarie di quei lotti alcune aziende del gruppo Marcucci. Drammatico lo scenario che viene descritto dai militari della Guardia di Finanza nei loro rapporti: gli emoderivati, infatti, sono stipati e conservati nei frigoriferi insieme a grosse partite di baccalà!
Un documentario della BBC del 2007 (nello stesso periodo esce Fattore VIII di Duda) mostra quelle immagini da brivido. E dettaglia anche le triangolazioni nei paradisi fiscali, in primis quelli delle Isole Vergini, con la consulenza speciale dell'avvocato inglese David Mills, che all''epoca si occupava di grandi gruppi, ad esempio quelli targati Marcucci e Berlusconi.
Alla procura di Trento confluisce tutto il materiale raccolto in un paio d'anni di indagini condotte delle fiamme gialle. Quindi lo start del processo, nel 1999. Un processo che però dura poco e dopo un paio d'anni finisce,: anche perché l'arco temporale sotto esame parte dal 1994, ed è già intervenuta tra l'altro una nuova legislazione.
Tutto deve passare, per competenza territoriale, a Napoli. E dall'imputazione per "epidemia colposa" si scala a quella di "omicidio colposo plurimo": e pensare che si era partiti da una più che realistica pista di "strage", visto il rigore "scientifico" nel procedere ad importazioni di sangue non testato (come quello africano e dalle carceri dell'Arkansas) solo per realizzare giganteschi profitti, da parte delle aziende italiane ed estere.

VERRA' FATTA FINALMENTE GIUSTIZIA?

David Mills

Tutti sappiamo come poi è andata a finire. Anni e anni di attesa a Napoli per iniziare il processo, con un rocambolesco trasloco di oltre 1000 faldoni giudiziari da Trento negli scantinati del Centro Direzionale, dove ha sede il tribunale partenopeo. Molti sono nel frattempo spariti, altri rosicchiati dai topi. Il processo finalmente è iniziato ad aprile 2016, quasi tre anni fa.
Il pm Lucio Giugliano, nell'udienza del 21 gennaio, ha chiesto l'assoluzione piena nel merito di tutti gli imputati perché "il fatto non sussiste". A suo parere, infatti, non sarebbe dimostrato il fondamentale "nesso causale" che lega le infusioni killer all'insorgere delle patologie, quasi sempre letale.
I legali delle parti civili Stefano Bertone ed Ermanno Zancla, invece, hanno abbondantemente documentato quel nesso, non solo relativo alla prima infusione ma anche a quelle successive che hanno di certo aggravato i decorsi delle malattie.
Dopo aver ascoltato i legali della difesa, in testa Massimo Di Noia e Alfonso Stile (per il gruppo Marcucci) e Luigi Ferrante (per Poggiolini), la parola il 25 marzo passa per la sentenza al giudice monocratico, il presidente della sesta sezione penale Antonio Palumbo.
Sarà fatta, dopo quasi 40 anni, finalmente Giustizia?

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