mercoledì 6 marzo 2019

Bergoglio fa il globalista? Oscura il suo passato fascista

Papa FrancescoC’era una volta in Argentina un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che era schierato contro la teologia della liberazione, vicina al castrismo e negli anni ’70 aderì alla Guardia de Hierro, un’organizzazione peronista, di stampo nazionalista, cattolica, ferocemente anticomunista. In quegli anni a chi gli faceva notare che l’organizzazione a cui aderiva si richiamasse alla Guardia di Ferro, il movimento romeno del comandante Corneliu Zelea Codreanu, nazionalista e fascista, Bergoglio replicava: «Meglio così». Della sua vicinanza alla Guardia de Hierro ne parlò dopo la sua elezione il quotidiano argentino “Clarin”, mentre a Buenos Aires apparivano manifesti che ricordavano Bergoglio peronista. Per la cronaca, la Guardia di Ferro era un movimento di legionari, molto popolare in Romania negli anni trenta, ritenuto antisemita e filonazista, di cui si innamorarono in molti, non solo in Romania. Uno di questi fu Indro Montanelli che pubblicò sul “Corriere della Sera” una serie di entusiastici reportage pieni di ammirazione per Codreanu, nell’estate del 1940, a guerra inoltrata, smentendo la sua tesi postuma che dopo il ’38 si fosse già convertito all’antifascismo. Testi ripubblicati di recente, “Da inviato di guerra” (ed. Ar).
Evidentemente anche nell’Argentina dei Peron il mito di Codreanu, barbaramente assassinato, e del suo integralismo cristiano, aveva proseliti. Nel ’74, dopo la morte di Peron, il movimento legionario si sciolse. Era un gruppo di 3.500 militanti 15mila attivisti. Si opponevano ai guerriglieri di sinistra peronisti infiltrati dai castristi, seguaci di Che Guevara; loro erano, per così dire, l’ala di estrema destra del giustizialismo. Il gruppo della Guardia de Hierro era stato fondato da Alejandro Gallego Alvarez. Era un movimento che teneva molto alla formazione culturale dei suoi militanti e alla presenza tra i diseredati e gli ultimi. A Bergoglio fu poi affidata un’istituzione in difficoltà, l’Università del Salvador. Bergoglio la risanò e l’affidò a due ex-camerati della Guardia de Hierro, Francisco José Pinon e Walter Romero. In quegli anni Bergoglio era avversario dichiarato dei gesuiti di sinistra da posizioni nazionaliste e populiste. La sua avversione alla teologia della liberazione gli procurò l’accusa di omertà da parte del Premio Nobel Perez Esqivel e poi di collaborazionismo con la dittatura dei generali argentini, dal 1976 a 1983.
Lo storico Osvaldo Bayer dichiarò ai giornali: «Per noi è un’amara sconfitta che Bergoglio sia diventato Papa». E Orlando Yorio, uno dei gesuiti filocastristi catturato e torturato dai servizi segreti del regime militare, accuserà: «Bergoglio non ci Emidio Noviavvisò mai del pericolo che correvamo. Sono sicuro che egli stesso dette ai marinai la lista coi nostri nomi». Solo dopo la caduta della dittatura militare Bergoglio iniziò a prendere le distanze dal peronismo nazionalista. Ho tratto fedelmente questa ricostruzione dalle pagine del libro di Emidio Novi, “La riscossa populista”, appena uscito per le edizioni Controcorrente (pp.286, 20 euro). Novi sostiene che la deriva progressista e mondialista di Francesco nasca da questo passato rimosso. Secondo Novi, «Papa Bergoglio vuol farsi perdonare il suo passato “fascista” durato fino al 1980». Per questo non perde occasione di compiacere il politically correct, il partito progressista dell’accoglienza, l’antinazionalismo radicale.
Novi, giornalista di lungo corso e senatore di Forza Italia, è morto lo scorso 24 agosto investito da un camion della nettezza urbana in retromarcia mentre era al suo paese natale, S.Agata di Puglia. Il suo libro è uscito postumo, con una prefazione di Amedeo Laboccetta e a cura di suo figlio Vittorio Alfredo. Novi si definiva populista già decenni prima che sorgesse in Italia l’onda populista. Era populista al cubo, perché proveniva dall’ala più “movimentista” dell’Msi ispirata dal fascismo sociale: poi perché proveniva dal sud e da Napoli, ed era un interprete genuino dell’antico populismo meridionale, a cavallo tra la rivolta popolana e la nostalgia borbonica; e infine era populista perché consideravaIl giovane Bergogliol’oligarchia finanziaria, la dittatura dei banchieri e degli eurocrati, il nemico principale dei popoli nel presente. Perciò amava definirsi nazionalpopulista, e sovranista ante litteram.
In questo suo ultimo libro Novi si occupa in più pagine del «papulismo» di Bergoglio, della sua teologia «improvvisata e arruffona», della sua resa all’Islam, della sua ossessione migrazionista fino a definire Gesù, la Madonna e San Giuseppe come una famiglia di immigrati clandestini in fuga. Lo reputa «uno strumento dell’anticristo», funzionale sia al progressismo radical dell’accoglienza che al mondialismo laicista della finanza, mescolando il vecchio terzomondismo, l’internazionalismo socialista con il disegno global che ci vuole nomadi, senza radici, senza patria e senza frontiere. Ma del suo passato argentino, al tempo di Peron, del giustizialismo e poi della dittatura militare, Bergoglio preferisce non parlare. Anche gli estroversi a volte tacciono.
(Marcello Veneziani, “Camerata Bergoglio”, da “La Verità” del 31 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).

martedì 5 marzo 2019

PROCESSO PER IL SANGUE INFETTO / TRAGICA SCENEGGIATA A NAPOLI


La tragedia che si trasforma in sceneggiata. Succede alla sesta sezione penale del tribunale di Napoli durante una delle ultime udienze del processo per il sangue infetto.
Dopo la richiesta di assoluzione con formula piena degli imputati avanzata il 21 gennaio dal pm Lucio Giugliano, secondo cui “il fatto non sussiste”, all’udienza dell’11 febbraio parlano le parti civili di alcune associazioni e di alcuni pazienti deceduti (su un totale di otto rappresentate nel processo, anche se – come è noto – la strage per il sangue infetto ha ammazzato almeno 5 mila persone).

Prende la parola uno dei legali di parte civile, Emanuele Tomassi, che ha preso parte solo alle prime udienze, poi è sparito nel nulla e mai ricomparso in aula: fino all’udienza dell’11, quando fa una sbrigativa ricostruzione dei fatti e sottolinea il nesso causale tra la patologia del suo assistito (Cialone) e degli altri.
A questo punto il botto: perchè l’avvocato difensore, incredibilmente, chiede l’assoluzione di tutti gli imputati, ossia l’ex re mida della sanità Duilio Poggiolini e una decina di ex dipendenti del gruppo Marcucci, all’epoca dei fatti oligopolista nella lavorazione e distribuzione di emoderivati.
Il motivo? La prescrizione che, a suo parere, sarebbe intervenuta.

Trasecola il giudice monocratico della sesta sezione penale, Antonio Palumbo, il quale fa in tempo per sussurrare, “caso mai solo per alcune parti offese”, visto che i tempi della eventaule prescrizione variano da vittima a vittima.

Il legale del gruppo Marcucci, Alfonso Maria Stile, non crede ai suoi occhi e subito incalza: “La prescrizione non ci basta certo, noi vogliamo l’assoluzione piena nel merito”. Come del resto aveva chiesto il pm Giugliano.

Palumbo si ritira per decidere e al termine fa sapere: “non entro nel merito della prescrizione che verrà comunque tenuta presente al termine, ma intendo andare avanti nelle udienze previste”.
Alle prossime udienze fissate per il 18 e 19 febbraio parleranno i due legali-base delle altre parti civili, Stefano Bertone ed Ermanno Zancla. Che sono chiamati a suffragare quel nesso di causalità fondamentale per dimostrare la connessione tra la prima (o le prime) infusioni killer e l’insorgenza della patologia che ha portato ai decessi. Nonchè, di tutta evidenza, a smontate la balla della prescrizione.
Seguiranno poi i legali della difesa (Alfonso Stile, Carla Manduchi e Massimo Di Noia) che si troveranno la strada spianata e il lavoro già praticamente fatto dal pm Giugliano.
Per il 25 marzo è prevista la sentenza.


ILARIA ALPI / LA GIORNALISTA CHE VENNE UCCISA DUE VOLTE. NEL PIU’ TOTALE SILENZIO


 Uno dei più colossali depistaggi di Stato trova oggi la sua ennesima archiviazione. Per il caso di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, infatti, il gip del tribunale di Roma, Andrea Fanelli, dopo la richiesta avanzata dal pm Elisabetta Ceniccola e controfirmata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, ha messo la pietra tombale su quell'omicidio e su quel depistaggio.
Non bastavano le ultime news su un altro omicidio e un altro clamoroso depistaggio, quello di Paolo Borsellino: ora la giustizia (sic) di casa nostra concede il bis.
Un'altra vergogna che suona come un ceffone in faccia a tutti gli italiani che ormai vedono la Giustizia quotidianamente calpestata, senza che nessuno ad alcun livello, tantomeno politico, si alzi per dire qualcosa.
Totali muri di gomma, emblematizzati dagli omertosi e complici silenzi dei media.
Avete letto un rigo su Repubblica o il Corriere della Sera per Alpi e Borsellino?

IL BUIO DOPO PERUGIA
Sintetizzamo le ultime vicende del giallo Alpi. Partiamo dalla clamorosa sentenza di Perugia, che due anni fa ha permesso di riaprire il caso. Una sentenza che ha scagionato Hashi Omar Assan, il giovane somalo che aveva scontato 16 anni di galera ingiustamente: il mostro sbattuto in prima pagina dai media e soprattutto dagli inquirenti.

Omar Hassan Hashi. In apertura Ilaria Alpi

Proprio come nel caso Borsellino, anche questa volta la condanna di un innocente e la non-caccia ai veri esecutori e mandanti, è stata prodotta da un teste taroccato, Ali Rage, alias Gelle, preparato di tutto punto della polizia per fornire una versione fasulla, inventata da cima a fondo. Gelle, infatti, verbalizzò davanti a un pm ma non fu mai presente al processo: nonostante ciò Hashi Assan venne condannato, basandosi solo su quel teste, senza alcun altro riscontro. Ai confini della realtà.
Quel teste, che era stato preparato dalla polizia a fornire quella versione accusatoria contro Hashi Assan – proprio come Vincenzo Scarantino per i primi processi Borsellino – dopo ebbe paura, trascorse un paio di mesi a Roma sotto protezione della polizia, dai cui agenti veniva accompagnato in un'officina auto e la sera riportato nel suo rifugio. Poi Gelle partì in tutta tranquilltà per la Germania, quindi traslocò in Inghilterra.
Nel frattempo le forze dell'ordine neanche lo hanno cercato, pur dovendo testimoniare al processo, che comunque è andato incredilmente in porto, con la condanna di Hashi Assan.
Chi invece riesce a trovare Gelle con facilità e senza ovviamente poter contare sui mezzi di cui dispongono gli investigatori, è l'inviata di "Chi l'ha visto" Chiara Cazzaniga. Si informa presso la comunità somala di Roma, ottiene alcuni recapiti londinesi, vola lì e dopo alcune perlustrazioni trova senza tanti problemi Gelle. Il quale le rilascia una lunga intervista, in cui tira fuori la verità: certo non quella che fu costretto a raccontare al pm romano che la bevve d'un fiato, ma tutta un'altra storia. Dove Hashi Assan non c'entra assolutamente niente.
Racconta il suo "taroccamento", la versione che venne obbligato a recitare, e il dopo, con la protezione della polizia, il lavoro presso l'officina della quale fornisce tutti i dettagli, la comoda fuga e il quieto soggiorno londinese.

L'avvocato Douglas Duale

L'intervista consente all'avvocato del giovane somalo, Douglas Duale, di far riaprire il caso, competente per territorio Perugia, visto che vi sono implicati magistrati romani.
Una sentenza che fa storia, quella perugina, perchè si parla a chiare lettere di depistaggio di Stato. Nella sentenza viene ricostruito tutto il depistaggio mossa per mossa, azione per azione. Vengono fatti i nomi dei poliziotti – anche eccellenti – coinvolti, vengono forniti fortissimi elementi probatori, tracciate alcune solide piste.
A questo punto è un gioco da ragazzi, per la Procura di Roma, proseguire su quel solco tracciato da Perugia. I legali della famiglia Alpi (Antonio D'Amati, Giovanni D'Amati e Carlo Palermo) e soprattutto la madre di Ilaria, Luciana Riccardi, vedono finalmente uno squarcio nel buio e ovviamente chiedono la riapertura delle indagini.
Ma nonostante quella stradocumentata sentenza alla quale basterebbe dare un seguito, il pm Elisabetta Ceniccola della procura romana incredibilmente chiede l'archiviazione del caso, perchè a suo parere non vi sono elementi tali da proseguire nelle indagini, anche perchè sarebbe ormai trascorso troppo tempo. A controfirmare, quindi avallare in toto, quella richiesta di archiviazione è il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Siamo sempre più ai confini della realtà.
Eccoci agli ultimi mesi. Ad un certo punto sembra aprirsi un altro spiraglio, perchè dalla procura di Firenze arrivano dei materiali. Nel corso di un'indagine su altri fatti, i procuratori gigliati si imbattono in alcune intercettazioni telefoniche tra somali del 2011. In esse si parla anche dell'omicio di Ilaria e Miran.

La Procura di Roma

A Roma quindi si riapre il caso: o almeno sembra. Ma trascorono solo pochi mesi e di nuovo il pm Ceniccola chiede l'archiviazione, nonostante i legali di Ilaria abbiano nel frattempo prodotto altre memorie e presentato altri elementi. Niente, la procura capitolina ormai sembra tornata quel porto delle nebbie di tanti anni fa.
La richesta del pm Ceniccola a questo punto passa al vaglio definitivo del gip, Andrea Fanelli. Che inizia ad esaminare carte e documenti, poi chiede altro tempo prima di pronunciarsi.
La sua decisione, per l'archiviazione finale, arriva il 6 febbraio, e nei prossimi giorni verrà notificata alle parti, le quali potranno capire le motivazioni di tale scelta.

LA MAGISTRATURA GUARDA
Recapitolando. E' noto e stranoto che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio all'epoca stavano indagando sui traffici di armi e rifiuti super tossici.
Che avevano scoperto i fili di quei traffici, i quali vedevano come protagonisti faccendieri italiani in combutta con i Servizi segreti sia somali che, soprattutto, italiani.
Che la Somalia era diventata un'ottima discarica per interrare enormi quantità di rifiuti in cambio di armi.
Che la rotta principale per l'interramento era la superstrada Mogadiscio-Bosaso, dove venivano ammassati e poi nascosti centinaia e centinaia di bidoni tossici.
Che quei traffici venivano addirittura agevolati dai soldi della cooperazione internazionale e del Fai (fondo aiuti internazionali)
Che vi erano impegnate imprese anche "eccellenti" le quali non verranno mai toccate e anzi negli anni vedranno aumentare i loro fatturati. La circostanza è tra l'altro documentata in altri procedimenti giudiziari in cui vengono tirate in ballo.

Giuseppe Pititto

Che l'ambasciatore italiano dell'epoca sapeva – anche delle inchieste di Ilaria – ed è stato a guardare. Nè ha collaborato con le autorità italiane che dal canto loro facevano finta di indagare.
Che 7 magistrati si sono alternati nelle inchieste senza mai cavare un ragno dal buco.
Che solo il primo magistrato impegnato, Giuseppe Pititto, aveva imboccato la pista giusta. Per questo l'indagine gli è stata sottratta senza alcun motivo, la rituale "incompatibilità ambientale". Dopo alcuni anni Pititto, nauseato, ha lasciato la magistratura, è passato a fare il dirigente alla Provincia di Roma e ha scritto un thriller che ricalca in modo perfetto il caso-Alpi: "Il grande corruttore", dove viene descritto il delitto di una giornalista, un omicidio di Stato in piena regola (il mandante è addirittura un ministro che diventerà presidente della repubblica…).
Che all'epoca la Digos di Udine aveva raccolto molto materiale che già indicava la pista giusta (rifiuti-armi-cooperazione).
Che il Consiglio superiore della magistratura non ha mia detto una parola su quei magistrati.
E' altrettanto noto che la famiglia Alpi non ha mai smesso di denunciare l'inerzia dei magistrati e la totale assenza della politica nel chiedere verità. Hanno rinunciato a portare avanti il "Premio Alpi" che ogni anno si teneva a Rimini, delusi dai colpevoli silenzi dei media. La madre di Ilaria ha sempre detto: "Lotterò fino alla fine dei miei giorni perchè sia fatta giustizia per mia figlia". Non ce l'ha fatta, è morta un anno fa.
Ed è soprattutto evidente che la giustizia italiana ormai è morta e sepolta. Le ultime due picconate sono state inferte per il caso Borsellino e per quello di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Uccisi due volte.
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lunedì 4 marzo 2019

Emanuela Orlandi: sulla tomba indicata alla famiglia, ogni giorno lumini e fiori



video.corriere.it

Linux Professional Institute: LPI ti invita a Incontro DevOps Italia | LPIC-1: la guida




Incontro DevOps Italia: #IDI2019 - Bologna, 7/8 marzo - LPI Gold Sponsor


Si tiene a Bologna giovedì 7 (workshop) e venerdì 8 (conferenza) marzo la settima edizione di Incontro DevOps Italia. Linux Professional Institute Italia è Gold Sponsor della manifestazione.

Leggi il Comunicato Stampa;
Partecipa a #IDI2019.

LPIC-1, Linux Essentials: la guida

È adesso online la serie completa di post dedicati all'Esame LPI LPIC-1 e a LPI Linux Essentials: ideale punto di partenza per la preparazione dei due Esami.
  1. Innovazione tecnologica, innovazione degli Esami LPIC-1 5.0;
  2. LPIC-1: Linux Loading;
  3. LPIC-1: Systemd oltre i Service;
  4. LPIC-1: iproute2 e NetworkManager;
  5. LPIC-1: cloud, desktop e altre modifiche;
  6. Aggiornamento alla Versione 1.6 di Linux Essentials;
  7. Perché gli Esami Beta sono importanti per lo sviluppo della certificazione?.

Linux e Open Source: segnala eventi e storie di successo

La mission di LPI è sostenere la formazione e il movimento Linux e Open Source: se sei coinvolto in eventi del settore, non esitare a contattarci per segnalarceli: valuteremo anche proposte di media partnership e sponsorizzazione degli eventi.

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