venerdì 7 dicembre 2018

Ciò che le elezioni svelano sul conflitto interno agli USA, di Thierry Meyssan

Le elezioni USA di metà mandato sono state interpretate dai grandi media alla luce della spaccatura Repubblicani/Democratici. Thierry Meyssan, continuando l’analisi della profonda evoluzione del tessuto sociale, vi legge invece una netta regressione dei Puritani rispetto ai Luterani e ai Cattolici. Il riallineamento politico voluto da Donald Trump potrebbe riuscire, come a suo tempo accadde per quello di Richard Nixon.

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Il Partito Repubblicano ha perso la Camera dei rappresentanti, ma Donald Trump ha imposto le proprie idee.
Con le elezioni di metà mandato gli elettori statunitensi sono stati chiamati a rinnovare l’intera Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato. Sul piano locale, parte dell’elettorato ha votato anche per designare 36 governatori e si è espressa su 55 referendum.
Queste elezioni mobilitano in genere molto meno delle elezioni presidenziali. I politologi USA sono soliti non interessarsi alla percentuale dei votanti, dal momento che è possibile scegliere di votare per alcune elezioni raggruppate e non per altre.
Dalla fine della Guerra Fredda la percentuale di votanti alle elezioni presidenziali ha oscillato tra il 51 e il 61%, con l’eccezione del secondo mandato di Bill Clinton, dove ha votato solo un’esigua minoranza; la partecipazione alle elezioni di metà mandato varia invece fra il 36 e il 41%, con l’eccezione di quelle del 2018, dove la percentuale dei votanti avrebbe raggiunto il 49%. Ebbene, dal punto di vista della partecipazione dei cittadini, se le regole del gioco sono democratiche, la realtà non lo è affatto. Se esistesse un quorum [1], pochissimi membri del Congresso sarebbero eletti. I rappresentanti e i senatori sono di norma votati da meno del 20% della popolazione.
Chi analizza i risultati elettorali per fare pronostici sul percorso politico dei candidati si concentra sulle divisioni partigiane. Dopo le elezioni del 6 novembre, i Democratici hanno la maggioranza alla Camera dei rappresentanti, i Repubblicani al Senato. Questo calcolo permette, per esempio, di prevedere il margine di manovra del presidente rispetto al Congresso. Tuttavia, secondo me, non consente assolutamente di capire l’evoluzione della società statunitense.
Nella campagna per le presidenziali 2016, un ex democratico, Donald Trump, è sceso in lizza per la candidatura del Partito Repubblicano. Rappresentava una corrente assente dal panorama politico USA sin dalle dimissioni di Richard Nixon: i jacksoniani. Trump non aveva, in astratto, alcuna possibilità di ottenere l’investitura repubblicana. Eppure, eliminò uno a uno i 17 concorrenti, fu il candidato dei Repubblicani e vinse le elezioni contro la candidata favorita nei sondaggi, Hillary Clinton.
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Andrew Jackson, la cui immagine è stampata sui biglietti di 20 dollari, è il presidente più controverso degli Stati Uniti.
I jacksoniani (dal nome del presidente Andrew Jackson, 1829-1837) sono i difensori della democrazia popolare e delle libertà individuali nei confronti sia del potere politico sia di quello economico. Nel 2016 nel Partito Democratico e nel Partito Repubblicano era invece dominante l’ideologia dei Puritani: ordine morale e imperialismo.
Durante la campagna elettorale avevo osservato che l’ascesa di Donald Trump indicava il riemergere di un conflitto di fondo: da un lato gli eredi dei Padri Pellegrini, cioè i Puritani che fondarono le colonie britanniche delle Americhe, dall’altro i successori degli immigrati che si batterono per l’indipendenza del Paese [2].
La prima componente storica degli Stati Uniti, i Puritani, voleva creare colonie secondo uno stile di vita “puro”, nel senso calvinista del termine, e seguire in politica estera le orme dell’Inghilterra. La seconda componente, gli Anglicani, i Luterani e i Cattolici, fuggiva invece dalla miseria di cui era vittima in Europa e sperava di affrancarsene grazie al sudore della fronte.
Questi due schieramenti trovarono alla fine un accordo sulla Costituzione. La legge fondamentale fu redatta dai grandi proprietari terrieri, che ambivano riprodurre il sistema politico della monarchia inglese, facendo però a meno dell’aristocrazia [3]; la Bill of Rights, ossia i primi 10 emendamenti alla Costituzione, fu espressione della volontà dei secondi, che aspiravano a perseguire il “sogno americano” senza rischiare di venire schiacciati in nome di una qualsivoglia Ragione di Stato.
Negli ultimi anni il Partito Democratico e il Partito Repubblicano si sono trasformati, diventando entrambi espressione del pensiero puritano: difesa dell’ordine morale e imperialismo. I Bush sono discendenti diretti dei Padri Pellegrini. Barack Obama ha formato il suo primo governo appoggiandosi massicciamente sui membri della Pilgrim’s Society, il club d’oltreoceano presieduto dalla regina Elisabetta II. Hillary Clinton è stata sostenuta dal 73% dei giudeo-cristiani” [4] e così via. Donald Trump era l’unico rappresentante della seconda componente della storia politica USA. In pochi mesi è riuscito ad avere il controllo del Partito Repubblicano e a portarlo, almeno in apparenza, verso le proprie convinzioni.
Oggi, circa un terzo degli statunitensi si divide in due fazioni: pro e contro Trump, che si fronteggiano aspramente. I restanti due terzi, molto più moderati, si tengono in disparte. Molti osservatori ritengono che il Paese sia diviso quanto lo fu negli anni 1850, appena prima della guerra civile, chiamata «guerra di secessione». Contrariamente al racconto mitologico, in questo conflitto non si scontrarono il Sud schiavista e il Nord abolizionista, poiché entrambi praticavano la schiavitù. Si trattava in realtà di uno scontro sulla politica economica che opponeva un Sud agricolo e cattolico a un Nord industriale e protestante. Entrambi cercarono di arruolare schiavi nei propri eserciti. Il Nord fu però rapido nel liberare gli schiavi, mentre il Sud invece attese di suggellare l’alleanza con Londra. Alcuni storici hanno dimostrato che, da un punto di vista culturale, il conflitto era un prolungamento negli Stati Uniti della guerra civile inglese, chiamata Grande Ribellione, che oppose Lord Cromwell e Carlo I. Diversamente dall’Inghilterra, dove alla fine i puritani furono sconfitti, negli USA vinsero i loro discendenti.
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I metodi poco ortodossi di Richard Nixon hanno sfortunatamente offuscato quanto da lui realizzato in politica.
Questo conflitto, che minacciò di risorgere sotto Richard Nixon, oggi si manifesta alla luce del sole. È del resto significativo che il miglior storico sull’argomento [5], Kevin Phillips, sia stato lo stratega elettorale che aiutò Nixon a conquistare la Casa Bianca. Nixon riabilitò gli elettori del Sud, riconobbe la Cina Popolare e mise fine alla guerra del Vietnam (iniziata dai Democratici). Entrato in conflitto con l’establishment di Washington, fu costretto a dimettersi (affare Watergate).
È certamente legittimo leggere i risultati elettorali del 6 novembre 2018 nell’ottica della spaccatura Repubblicani/Democratici e dedurne una vittoria del Partito Democratico, sebbene di stretta misura. L’esito elettorale va però letto soprattutto alla luce della spaccatura Luterani/Calvinisti.
Partendo da questo presupposto è d’obbligo tener conto dell’intensa partecipazione alla campagna elettorale, non solo del presidente Trump, ma anche del predecessore Obama. La posta in gioco era, per una delle parti, sostenere il riallineamento culturale operato da Trump, per l’altra ottenere la maggioranza al Congresso e poter così destituire il presidente con un pretesto qualsiasi. Il risultato è chiaro: l’impeachment è impossibile e Trump ha il sostegno di una maggioranza di governatori che rende possibile la sua rielezione.
I nuovi eletti democratici sono dei giovani, partigiani di Bernie Sanders e molto ostili all’establishment del partito, in particolare a Hillary Clinton. Ma, quel che più conta è che TUTTI i candidati per i quali Trump è sceso in campo sono stati eletti. Quelli che hanno rifiutato il suo aiuto sono stati battuti.
I perdenti di queste elezioni, in primo luogo la stampa e Obama, non hanno fallito perché Repubblicani o Democratici, ma perché Puritani. A differenza dei commenti dei media dominanti, si deve constatare che gli Stati Uniti non si stanno spaccando, bensì si stanno riformando. Se il processo andrà avanti, i media dovrebbero abbandonare la retorica moralista e il Paese dovrebbe ritornare durevolmente a una politica egemonica, abbandonando quella imperialista. Alla fine, gli Stati Uniti potrebbero ritrovare il consenso costituzionale.

giovedì 6 dicembre 2018

[Reseau Voltaire] Les principaux titres de la semaine 5 dic 2018


Réseau Voltaire
Focus




En bref

 
Israël-Liban : qui viole la résolution 1701 ?
 

 
Tsahal nettoie les tunnels du Hezbollah à sa frontière
 

 
Riyad finance la Mouqata'a, tandis que Doha finance Gaza
 

 
Journée insurrectionnelle dans le centre de Paris, à Marseille et Avignon
 

 
Confirmation de notre version de l'incident de Kertch
 

 
La marine ukrainienne viole l'espace maritime russe
 
Controverses
« L'art de la guerre »
Derrière l'attaque US contre les smartphones chinois
par Manlio Dinucci
Fil diplomatique

 
Discours d'Édouard Philippe en réponse aux émeutes
 

 
Conférence de presse d'Emmanuel Macron à l'issue du G20
 

 
Discours d'installation du Haut Conseil pour le Climat
 

 
Déclaration de la Russie sur l'incident militaire en Crimée
 

 

« Horizons et débats », n°26, 26 novembre 2018
Les migrations, armes de guerre
Partenaires, 26 novembre 2018
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Mosca – Costantinopoli: scisma nella chiesa ortodossa. L’opinione di Aleksandr Dugin


Come riportato da Ria Novosti, il 3 novembre il presidente ucraino Petro Poroshenko e il patriarca Bartolomeo hanno firmato un accordo di collaborazione e cooperazione tra l’Ucraina e il Patriarcato di Costantinopoli.
Il presidente ucraino su twitter, ha definito l’evento “storico”, aggiungendo: “L’accordo che oggi abbiamo firmato completa il processo di conferimento del “tomos” (decreto ecclesiastico) secondo tutti i canoni della Chiesa ortodossa”.
Il Patriarca di Costantinopoli, da parte sua, ha affermato che questo accordo contribuirà ad accelerare la concessione dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa in Ucraina. Inoltre, è convinto che sarà importante sia per le relazioni bilaterali, sia per l’ortodossia nel suo insieme.
Poroshenko è intenzionato ad ottenere da Costantinopoli il conferimento dell’autocefalia alla struttura non canonica (secondo il Patriarcato di Mosca) della chiesa ucraina (patriarcato di Kiev). A metà ottobre, il Patriarcato di Costantinopoli con l’annuncio di dare avvio a tale procedura, ha abrogato l’atto del 1686 che sanciva il trasferimento della “Metropolia” di Kiev sotto la giurisdizione del Patriarcato di Mosca, togliendo, contemporaneamente, anche l’anatema posto dalla Chiesa ortodossa russa sui due leader delle strutture ecclesiastiche non canoniche ucraine:  a Filarete, capo del “Patriarcato di Kiev” e a Macario, capo della Chiesa ortodossa autocefala ucraina (Filarete fondò la sua struttura nel 1992 con il sostegno dell’allora presidente ucraino Leonid Kravchuk.  la Chiesa ortodossa autocefala ucraina venne fondata dal Direttorio della Repubblica Popolare dell’Ucraina nel 1920 n.d.r.).


Kiev-Pecherskaya Lavra

Il Sinodo della Chiesa ortodossa russa ha interpretato l’azione di Costantinopoli come “scisma” e ha annunciato la rottura delle sue relazioni  con Costantinopoli su tutto il proprio territorio canonico, che comprende anche l’Ucraina e la Bielorussia. Secondo il metropolita Hilarion (presidente del Dipartimento delle relazioni estere del Patriarcato di Mosca n.d.r.), Costantinopoli con questo atto ha perso il diritto di venir considerato il centro di coordinamento dell’Ortodossia.
Ecco, in esclusiva, l’opinione del famoso politologo russo professor Aleksandr Dugin riguardo la delicata questione:
“Si tratta di uno scisma tra il patriarcato di Costantinopoli e il patriarcato di Mosca. L’aspetto più negativo di tutta la questione è che il governo ucraino potrà utilizzare questo fatto come pretesto per prendere, anche con la violenza, le parrocchie e le chiese del patriarcato di Mosca presenti sul territorio ucraino. Le chiese del patriarcato di Mosca in Ucraina sono predominanti, rappresentano la forza più grande nel contesto religioso. Inoltre, con questa decisione di pianificare la metropolia indipendente, il governo di Kiev avrà la possibilità di esercitare pressione sulla Russia addirittura per provocare la guerra. Se inizierà a scorrere il sangue Mosca dovrà reagire. Questo è molto grave.


Aleksandr Dugin

Per ciò che riguarda l’aspetto storico. Il patriarcato di Mosca da secoli non dipende da quello di Costantinopoli. Anche da un punto di vista gerarchico il patriarcato di Costantinopoli ha un’autorità, ma senza potere concreto all’interno della chiesa ortodossa. Ha solo un potere simbolico, non è più alto gerarchicamente, possiamo definirlo come “primo tra uguali”. Il patriarcato di Costantinopoli non ha mai giocato un ruolo importante nella nostra storia.
Da un punto di vista della fede, non c’è nessuna eresia, niente di dottrinale, questa decisione va semplicemente contro gli interessi del nostro patriarcato. Questo è uno “scisma” autentico. Più grave, come conseguenza,  sarà invece la rottura con il Monte Athos, (che si trova sotto la giurisdizione ecclesiastica del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli n.d.r.) che per noi rappresenta un punto di riferimento spirituale, mistico molto importante. Penso comunque che i pellegrini russi continueranno a visitare il Monte Athos”.
Eliseo Bertolasi

mercoledì 5 dicembre 2018

Rete Voltaire: I principali titoli della settimana 5 dic 2018


Rete Voltaire
Focus




In breve

 
Israele-Libano: chi vìola la risoluzione 1701?
 

 
Tsahal ripulisce la frontiera dai tunnel dello Hezbollah
 

 
Riad finanzia la Muqata'a, Doha invece finanzia Gaza
 

 
Giornata insurrezionale nel centro di Parigi, a Marsiglia e Avignone
 

 
Confermata la nostra versione dell'incidente di Kertch
 

 
La marina ucraina vìola lo spazio marittimo russo
 

 
Le clausole segrete dell'accordo sul gas tra Cipro, Grecia, Italia e Israele
 

 
Controproposta russa all'«Accordo del secolo»
 
Controversie
 Roma (Italia) |
Il tentativo di Donald Trump di riequilibrare i flussi commerciali sino-statunitensi non è funzionale soltanto alla volontà di riportare negli Stati Uniti i posti di lavoro persi con la delocalizzazione. Le nuove infrastrutture di trasporto e di comunicazione cinesi sono una minaccia sempre più incombente per la posizione di leader mondiale degli Stati Uniti. Il braccio di ferro per Huawei mostra come preoccupazioni economiche e preoccupazioni militari si congiungano. Già diversi Stati hanno constatato che Washington non è per il momento in grado di decodificare gli strumenti Huawei, così, come già in Siria, hanno riequipaggiato completamente i loro servizi d'intelligence con tecnologia prodotta dal leader cinese delle telecomunicazioni e vietato ai funzionari di usarne di tipo (...)

 
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