giovedì 25 ottobre 2018

GLIFOSATO / UNA SENTENZA A SAN FRANCISCO DA BRIVIDI


Sembra il copione di uno dei migliori film interpretati da Julia Roberts, "Erich Borovich", l'avvocato in minigonna e tacchi a spillo animata da un coraggio leonino per vincere una causa contro un colosso che ha inquinato mezzo territorio e causato morti a catena per tumore.
Peccato che stavolta il giudice non sia di quella tempra e non abbia un grammo del coraggio di Erich. Per il giudice della Corte superiore di San Francisco, Suzanne Ramos Bolanos, infatti il glifosato non fa male, anzi è consigliabile in tutte le diete e produce effetti miracolosi.
Scherzi a parte, il giudice Bolanos ha rimesso in discussione il risarcimento che un ammalato di cancro era riuscito ad ottenere in un precedente giudizio (280 milioni di dollari) sostenendo che non c'è conessione tra glifosato e insorgenza della patologia tumorale. L'uomo, infatti, aveva fatto uso di erbicidi prodotti dalla Monsanto, il colosso a stelle e strisce appena inglobalo da un altro colosso, quello farmaceutico tedesco Bayer, i quali, evidentemente, adesso fanno salti di gioia e sparano i tric trac, dopo l'incredibile sentenza.
Ma non basta. In vena di prodigalità verso i due colossi, il giudice Ramos Bolanos cerca di fare ancora di più. E cioè intende chiedere la riapertura per "insufficienza di prove" per quanto riguarda la parte della sentenza che prevede una sanzione da 250 milioni per 'danni punitivi'. A quel punto il neogruppo che domina in modo monopolitico il mercato dei prodotti per l'agricoltura (compresi glifosati e pesticidi d'ogni sorta) si troverebbe la strada spianata nel futuro per l'uso più sfrenato del glifosato, sostanza che invece la gran parte degli studi scientifici "non di parte" considera altamente tossico.
E sempre a questo punto non resta, per il giudice Bolanos, che un'ultimo provvedimento: il Nobel  "per legge" a Monsanto e Bayer, così il quadro è completo.
Tornando con i piedi per terra, è possibile lasciar in mano a un toga che probabilmente non capisce neanche la differenza fra un seme e un fiore una sentenza di tale peso? Non andrebbe quanto meno affiancata da un collegio giudicante con tanto di team di esperti "super partes", cioè non "mazzettabili" dal colosso tedesco fresco di matrimonio? O non andrebbe affidato a un Corte Suprema? In ballo ci sono la salute dei cittadini, in primo luogo, ma anche miliardi di dollari per il commercio di glifosato.

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mercoledì 24 ottobre 2018

DOPO CUCCHI / PERCHE’ NON PARLANO I POLIZIOTTI DI ILARIA ALPI E VIA D’AMELIO?


I muri di gomma a volte miracolosamente di sgretolano. Succede oggi con il caso di Stefano Cucchi, ammazzato dentro una caserma in una tragica notte. Oggi un carabiniere trova la forza di confessare e accusare anche due colleghi che uccisero di botte il giovane.
Un caso più unico che raro nella storia di casa nostra. Perchè le cortine fumogene e i muri di gomma, appunto, quando si tratta di "istituzioni che ammazzano" sono più impenetrabili che mai.
S'è saputo qualcosa del caso di Giuseppe Uva? O del cingolato che passò sul corpo di Carlo Giuliani?
Speriamo sia il primo tassello di un mosaico di omertà che viene giù, e a seguirne ce ne siano tanti altri che hanno fino ad oggi macchiato in modo indelebile la storia del nostro Paese.


Giuseppe Uva. In apertura Ilaria Cucchi all'uscita della Procura di Roma

Torniamo su due casi, di cui abbiamo più volte trattato, perchè coinvolgono – come protagonisti negativi – uomini della forze dell'ordine, quindi figure istituzionali, ma che ovviamente ubbidiscono a dei superiori, da individuare in vertici dei corpi militari di appartenenza, ma soprattutto ad altri superiori gerarchici, a livello di magistratura, di politica. Anche d'affari.
Casi per certi versi più gravi dello stragrave caso Cucchi, perchè qui i livelli di complicità sono ad altissimi livelli e tutti uno più intoccabile dell'altro. E siamo anche in fase di nuovi sviluppi che speriamo riescano a scalfire quei maledetti impenetrabili muri. Ci riferiamo ai casi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ed alla strage di via D'Amelio.
Per sommi capi la ricostruzione dei due gialli e qualche novità.

DEPISTAGGIO PERFETTO PER ILARIA E MIRAN
Il caso di Ilaria e Miran è appeso al filo della decisione del gip di Roma, Andrea Fanelli, il quale si dovrà pronunciare a breve sulla doppia richiesta di archiviazione avanzata dal pm Elisabetta Ceniccola e controfirmata dal procuratore capo del tribunale di Roma Giuseppe Pignatone.
Secondo questi ultimi non è possibile accertare la verità perchè è passato troppo tempo, la mole di documenti presentata dai legali della famiglia Alpi (gli avvocati Giuseppe e Giovanni D'Amati, l'avvocato Carlo Palermo) a nulla serve per identificare killer e mandanti dell'esecuzione, gli ultimi elementi probatori arrivati dalla Dda di Firenze – vale a dire alcune intercettazione  del 2012 fra alcuni somali che parlavano del duplice assassinio – non spostano il quadro indiziario di un centimetro.
Ma ecco la circostanza più grave di tutte: il pm Ceniccola e il capo Pignatone se ne fregano altamente di quanto contenuto nella sentenza che il tribunale di Perugia ha messo nero su bianco un anno fa, quando non solo ha scagionato il giovane somalo, Hashi Omar Assan, che da innocente stava passando il suo sedicesimo anno in carcere, ma ha ricostruito tutta la story e ha scritto senza mezzi termini di Depistaggio di Stato.
Cosa era successo? Il processo s'è chiuso con la condanna di Hashi sulla base di una sola testimonianza: quella di tale Ahmed Ali Rage, alias "Gelle", il quale ha verbalizzato davanti al pm di turno e ad alcuni poliziotti ma non si è presentato neanche una sola volta in dibattimento. Circostanza ben strana: una condanna così pesante senza che l'unico testa venga a confermare le accuse in aula. Cosa era successo, così come dettagliatamente descrive la sentenza di Perugia? Gelle era stato 'taroccato' dalla polizia, imbeccato sulle risposte da dare e sul colpevole da indicare. Poi tutto ok, gli trovano – sempre i poliziotti di cui nella sentenza perugina si fanno nomi e cognomi – un lavoro, Gelle viene addirittura portato all'officina in auto, tutto dura tre mesi, quindi viene messo su un treno per la Germania, dove trascorrerà alcune settimane, fino a raggiungere la meta finale, Londra.


Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Hashi Omar Assan

Hanno poi sostenuto, le nostra forze dell'ordine, di aver cercato in tutti i modi e con tutti i grossi mezzi che hanno a disposizione di ritrovare Gelle e riportarlo in Italia. Ma niente, missione impossibile.
Missione più che possibile, invece, per l'inviata di "Chi l'ha visto", Chiara Cazzaniga, che dopo alcune ricerche presso la comunità dei somali a Roma, ha preso l'aereo, è sbarcata a  Londra e in un baleno è riuscita a trovare Gelle! Lo ha intervistato e Gelle ha raccontato di tutta la messa in scena: la polizia gli ha detto che doveva accusare quel giovane somalo e lo ha imbeccato con tutti i  dettagli del caso. Fine della storia.
L'intervista è andata in onda e ovviamente per il Hashi si è aperto il processo di revisione al tribunale di Perugia, dove è stato scagionato da ogni colpa. Ma le toghe perugine sono riuscite a fare di più: hanno cioè ricostruito – attraverso Gelle – tutto il percorso fatto di clamorosi Depistaggi, attuato dalla polizia ma su evidenti input superiori.
Quali? Li poteva agevolmente trovare la procura capitolina, dopo tale assist. Ma invece di fare questo, avendo la strada già ben spianata dalla sentenza di Perugia, cosa ha fatto la procura di Roma, tornata a pieno titolo il Porto delle nebbie? Ha chiesto l'archiviazione di tutto!
Poi sono arrivati gli elementi dalla Dda fiorentina, quindi il gip ha chiesto tempo per decidere. Imperterriti, Ceniccola e Pignatore hanno di nuovo chiesto l'archiviazione e ora si è in attesa, a giorni, della pronuncia definitiva del gip.
Sorge spontanea la domanda: perchè un poliziotto coinvolto nel depistaggio adesso non parla? Potrà non sapere tutto del giallo, chi sono i veri mandanti, ma perchè non si comincia a dare qualche picconata a qual muro di cemento? E per lorsignori, più in alto: non sentono bruciare dentro qualcosa, per aver calpestato la giustizia, mandato al massacro due giovani giornalisti, in nome di affari come traffico d'armi, di rifiuti super tossici e via dicendo? Che razza di uomini sono, senza un grammo di dignità e di coscienza?

UN TAROCCAMENTO A REGOLA D'ARTE
Copione molto simile per la strage di via D'Amelio. 7 innocenti sono stati condannati – e hanno scontato 16 ani di galera – per il tritolo di via d'Amelio. E il tutto sulla scorta di una sola testimonianza, quella di Vincenzo Scarantino, anche in questo caso inventato a tavolino dalla polizia, addestrato di tutto punto come uno scolaretto che deve mandare a memoria la lezione. C'è voluta la testimonianza di Gaspare Spatuzza a smontare quel castello di menzogne e la successiva confessione dello stesso Scarantino il quale, nel corso del Borsellino 4, ha raccontato per filo e per segno come è stato intimidito e costretto a recitare quella parte: anche stavolta un soggetto che viene costruito a tavolino, imbeccato di tutto punto. Come successe per Gelle.


Fiammetta Borsellino

Stavolta la catena di comando è più articola ma anche più chiara. Si sta aprendo il processo a carico di 4 poliziotti per Depistaggio, i quali racconteranno naturalmente che ricevevano ordini dal loro capo, il numero uno della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Il quale però non può più difendersi perchè è morto nel 2002. E allora? Con ogni probabilità, seguendo il filo logico, La Barbera avrà avuto degli iterlocutori, difficile immaginare un'operazione 'solitaria'. E quindi con in magistrati che avevano in mano il fascicolo sulla strage di via D'Amelio.
Si trattava di Anna Maria Palma, seguita da Carmine Petralia, quindi dopo 5 mesi entra nel pool anche un giovane Nino Di Matteo.
Da mesi Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato trucidato con la sua scorta, chiede a qualcuno di parlare. Si rivolge ai poliziotti, ma non dimentica certo i magistrati. Qual è stato loro ruolo? Chi ha realmente costruito il pentito Scarantino, che significa aver ordito il Depistaggio di Stato?
Perchè, soprattutto oggi, dopo che il sipario si è alzato sul caso Cucchi, uno dei poliziotti chiamati a testimoniare nei prossimi giorni ritrova il fegato – ma soprattuto il cuore – per raccontare come sono andate le cose?
Perchè resta impenetrabile come una cassaforte il mistero dell'agenda rossa, passata di mano in mano e con un processo finito in flop? Perchè nessuno chiede alla giornalista antimafia Roberta Ruscica tra quali mani è passata l'agenda di Paolo Borsellino?
Si tratta di due buchi neri tra i più clamorosi e dolorosi della nostra malastoria, perchè parlare di Depistaggio di Stato significa parlare di un Stato che sta marcendo, di una Giustizia che diventa sempre più una lontana utopia.
Facciamo in modo che questo giorno in cui si vede finalmente verità e giustizia nel caso del povero Stefano Cucchi e della sua famiglia per anni straziata, possa rappresentare un inizio. E i casi Alpi e Borsellino sono più attuali e bollenti che mai.

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martedì 23 ottobre 2018

Conferenza "Oltre il velo di Maya" 🌎 - Premiere Choose Love!❤



FINALMENTE STA ARRIVANDO CHOOSE LOVE
Siamo lieti di poter finalmente comunicare che il nuovo film documentario di Thomas Torelli è in uscita!
Il vostro contributo per la realizzazione di Choose Love è stato vitale e stiamo definendo tutti i dettagli per la prima festa riservata ai sostenitori del film Choose Love

Ma la buona notizia è che c'è ancora la possibilità di sostenerci!
Basta cliccare sul bottone sottostante!
CLICCA QUI PER CONTRIBUIRE
Tutti coloro che invece hanno già contribuito e ci hanno sostenuto, sono invitati alla prima assoluta del film!
Un pomeriggio per poter esprimere la nostra più profonda gratitudine a chi ci ha dato il suo contributo per rendere tutto questo possibile.
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CONFERENZA: OLTRE IL VELO DI MAYA
Il 13 ottobre a Vicenza partirà il nuovo tour conferenze di Thomas Torelli: Oltre il Velo di Maya.
In questa straordinaria e nuova serata con Thomas Torelli partiremo da Zero (inchiesta sull'11 settembre) ed arriveremo ad un inedito del film Choose Love (passando attraverso Un Altro Mondo e Food ReLOVution) ma non solo… ci spingeremo molto, molto più in là.
Partiremo da ZERO, film diventato un simbolo sui condizionamenti della società, in cui si cerca di spiegare la verità, raccontando la storia, non nella maniera in cui è stata scritta dai Vincitori.
Ripercorreremo la storia così come non ci è mai stata raccontata, per sperimentare quanto la scelta dell'amore sia l'unica strada percorribile per fondare una nuova umanità e capire chi siamo realmente: "un miracolo unico ed irripetibile di coscienza, momento per momento".
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lunedì 22 ottobre 2018

GIORNALISMO D’INCHIESTA / IN ABRUZZO SI SPEGNE UN’ALTRA VOCE


Cala – speriamo solo per ora – il sipario su PrimaDaNoi, un eccellente quotidiano on line realizzato in Abruzzo e diretto da con passione, coraggio e professionalità da Alessandro Biancardi. Ne siamo profondamente dispiaciuti perchè rappresentava da anni un raro esempio di giornalismo investigativo autentico, capace di scavare e scovare nel marcio della malapolitica, di alzare gli altarini su affari, sigle e personaggi che la fanno da padrone nelle loro aree.
Proprio giorni fa rileggevamo una lunga e interessante inchiesta sulla Proger, una società d’ingegneria di origini pescaresi diventata leader in Italia: intrecci da brividi che anche la Voce ha sovente affrontato.
Ne hanno subito tante, i colleghi di PrimaDaNoi, sono stati attaccati per via giudiziaria dai poteri forti, hanno dovuto subire i morsi dalla giustizia che ti viene negata anche quando hai rispettato in pieno le regola del buon giornalismo, della deontologia, della massima professionalità. Eppure, chi è debole ormai sempre nelle aule giudiziarie, con sentenze civili velocissime, soccombe. Ed anche penali che oggi prevedono una straordinaria rapidità “d’esecuzione”, sparandoti addosso una provvisionale che si concede solo per reati gravissimi. Ebbene, noi della Voce ne abbiamo subite negli ultimi mesi 3 di identico tipo, 3 condanne a 7 mila euro ciascuna che sembrano fatte con lo stampino, e infatti sono firmate dalla stessa giudice.
Hanno deciso, di tutta evidenza, di sopprimere quel poco che resta di liberà di stampa per mano giudiziaria (oltre che economica: la pubblicità sempre più scarsa), di affossare una volta per tutte quel po’ di giornalismo d’inchiesta che dà fastidio al potere, impegnato ora – con manovre di depistaggio giudiziario – a non farci conoscere mai quali sono killer e mandanti dell’omicidio di Ilaria Alpi Miran Hrovatin, chi ha messo quel tritolo in via D’Amelio.
Ben contenta la politica, vecchia e nuova, visto il prurito che il giornalismo, quello vero, ha suscitato tempo fa in un D’Alema, poi in un Renzi, ora in un Di Maio. Uniti nella lotta – lorsignori – ad evitare che si faccia luce sui buchi neri della nostra marcia Repubblica e ad affossare quel po’ di giornalismo che va a caccia non di fake news, ma di verità e giustizia.
In basso pubblichiamo la lettera di commiato del bravo direttore Biancardi.
Ma prima di salutarci volevamo segnalare un altro caso, stavolta nel giornalismo radiofonico “d’inchiesta”. E’ stato licenziato di punto in bianco David Gramiccioli, per diversi anni direttore di Colorsradio, una coraggiosa emittente romana che non aveva paura di affrontare i temi più bollenti, dalle mafie ai gialli e misteri d’Italia, dai traffici di monnezza al potere di Big Pharma.
E forse proprio le battaglie sui vaccini – uno dei business principali delle industrie farmaceutiche, per le quantità di prodotto smerciato, nonostante le smentite di scienziati taroccati – sono costate il lavoro a David, che dirige anche una compagnia teatrale di giornalismo d’inchiesta. Un forte in bocca al lupo a lui e a chi lo aiuta nel suo difficile lavoro di denuncia.

L’EDITORIALE DI ALESSANDRO BIANCARDI
COSÌ MUORE UN QUOTIDIANO
Quando le candeline diventano un cero: 26 settembre 2005-26 settembre 2018
Abruzzo. PrimaDaNoi.it si spegne. È l’annuncio che non avremmo mai voluto dare e che da anni abbiamo cercato di allontanare il più possibile, fino a quando resistere non è stato più sufficiente. Così siamo costretti a fermarci: da oggi non troverete più notizie aggiornate qui.
Il 26 settembre 2005 nasceva il primo quotidiano on line per la regione Abruzzo in un momento in cui la tecnologia era ancora una speranza da queste parti, appena prima dei grandi scandali e in un momento di forti cambiamenti.
Il 26 settembre 2018, 13 anni esatti dopo, dobbiamo fermarci perché non possiamo più garantire la sostenibilità del quotidiano e lo facciamo prima di contrarre debiti che non potremo onorare.
È la fine di un sogno che si è trasformato in un incubo, poiché spesso siamo diventati noi il nemico di troppi e il bersaglio da colpire.
PrimaDaNoi.it muore per asfissia lentissima: un quotidiano vive di pubblicità ma siamo stati bravini a raccogliere quella nazionale e pessimi a convincere gli imprenditori sotto casa. Chissà perché…
PrimaDaNoi.it muore per l’isolamento nel quale è stato relegato solo perché siamo stati “cattivi” con i potenti e qualche difficoltà (piccolissima) in questi lunghi anni gliela abbiamo pure creata.
PrimaDaNoi.it muore perché in questa terra, oggi, la verità, l’informazione, il giornalismo d’inchiesta non sono ritenuti ancora beni vitali dal cittadino comune.
E quindi è la fine di un ciclo, di una stagione della nostra vita e di qualcosa di impalpabile che c’è e che assomiglia, chissà, forse, ad un punto di riferimento o ad una boccata d’aria.
È molto probabile che tra un paio di mesi anche il sito, con i suoi 500mila articoli di cronaca e inchieste abruzzesi, svanirà nel cimitero digitale e non vi sarà più alcuna traccia di quello che è stato.
Per noi, però, non è una sconfitta: non siamo noi a perdere.
Noi siamo quelli che per 13 anni esatti hanno resistito ad ogni sorta di tempesta, sgambetto o tranello, che hanno nuotato sempre controcorrente (purtroppo) e hanno combattuto soli contro tutti.
E quello che non ti ammazza, ti spegne: anche se ci è riuscito solo ora.
Lo diciamo chiaramente e urlando perché rimanga agli atti: la fine di PrimaDaNoi.it è la prova inconfutabile che l’informazione libera, svincolata e indipendente davvero non può esistere, se non per poco.
I patti, invece, sono la via unica anche per un giornale di sopravvivere ed è proprio per questo che non si può essere “indipendenti”, come noi, da tutti; a qualcuno devi pur appoggiarti e fare qualche favore se vuoi che poi ti difenda.
Come direttore mi ritengo l’unico responsabile per aver sempre tenuto una linea editoriale intransigente, improntata solo all’interesse pubblico senza mai farci intralciare da quelli privati (nemmeno i nostri).
La mia è stata una leggerezza imperdonabile ma mai avrei potuto immaginare che il Paese fosse malato a tal punto da trasformare una così preziosa virtù in una sentenza di morte.
Come giornale abbiamo sempre seguito i più alti principi morali (dunque nulla di più antiquato e retrogrado) e certe cose si pagano, qui ed ora, a caro prezzo.
Quando abbiamo iniziato immaginavamo che sarebbe stato difficilissimo ma non conoscevamo certi biechi meccanismi e certi ingranaggi che poi ci hanno stritolato.
Mai avremmo potuto immaginare, per esempio, di inaugurare una nuova stagione di dittature e censure come quelle avviate dalle ignobili sentenze sul “diritto all’oblio” che, nel 2010, per primi al mondo, ci hanno colpito, e da allora e a causa di quelle decisioni, il declino è stato inesorabile e ancora più veloce.
Condannati per aver violato una legge che non c’è in nome della privacy che serve per censurare, intimorire e restituire la verginità a qualche delinquente che non ha imparato la lezione.
Siamo stati costretti dal “sistema” ad essere come un soldato in campo aperto senza difese, bersaglio facile da colpire e solo perché la “Giustizia” l’abbiamo incrociata pochissime volte.
Noi abbiamo cercato di difendere il vostro diritto di conoscere negando la cancellazione di articoli veri e mai diffamatori e ci siamo trovati contro prepotenti e giudici.
Per dirne una, c’è un tizio che da sette anni mi minaccia di morte e profetizza di lasciarmi in mutande: per fortuna si è avverata solo la seconda.
È stato un continuo e disgustoso tiro al piccione.
L’informazione seria e le inchieste giornalistiche hanno per noi un carattere sacrale ma costano tanti soldi, molta fatica e svariate conseguenze e noi, da soli, per questi anni ci siamo fatti carico di tutto questo ma ora non siamo più in grado di fronteggiare tutti i rovesci ed i guasti di un Paese degradato.
Non è sbagliato dire, dunque, che le istituzioni sono state complici della nostra condanna a morte.
Grazie a tutti quelli che ci hanno seguito con assiduità, letto con attenzione, che hanno potuto sapere e scoprire l’Abruzzo in questi 13 anni.
Magari che hanno sperato con noi che le cose potessero migliorare.
Da oggi tutti quelli che pensavano a noi per denunciare qualcosa che loro non avevano il coraggio di fare dovranno rivolgersi altrove.
A quelli a cui siamo antipatici e che oggi non sono affranti come noi dico che prima o poi arriva per tutti il momento di avere bisogno di un quotidiano davvero onesto e libero per conoscere o raccontare.
Noi la nostra parte l’abbiamo fatta.
Non c’è altro da dire e non ne vale la pena.
Punto.
E basta.

Alessandro Biancardi”